Nell’autostrada piatta e calcificata dell’ordinario, la terra sofferente lancia urla di urgenza ai suoi abitanti aggrappati con tutte le forze ai volanti dell’immobilità. Il folle del villaggio, Guy Debord, parlava già nel ’68 della “società dello spettacolo” rintracciando l’attitudine sempre più diffusa a costruire confini spaziali e personali. Lo stesso mondo – solo un po’ antecedente, ma ugualmente indaffarato e color seppia – di Dorothy Gale soffriva di una simile inerzia. Quella bambina apparentemente ingenua, si concede, tuttavia, in contropiede, a un diverso tornado, che rende possibile un salto “over the rainbow”: oltre l’arcobaleno, va verso quel mondo smeraldo, colore simbolo del chakra del cuore, in cui compirà un viaggio fantastico.
Dorothy è il nostro esempio perfetto: sorride ai piccoli Munchkin, si affida alla strega buona, affronta quella cattiva, cammina e accoglie con sé, senza riserve, anche chi non ha cuore, cervello e coraggio. Il mago di Oz, trattato semiotico della cultura americana e occidentale, è una pellicola esito di un lavoro collettivo e artigianale. E sembra davvero simile a quello di Lucia Ronchetti, Wayne McGregor, Gianni Forte e Stefano Ricci, i Direttori della Biennale Musica 2023, della Biennale Danza 2023 e della Biennale Teatro 2023. Si sono impegnati a donare scarpette rosso rubino a chi vuole custodirle e indossarle in viaggi oltre l’arcobaleno per ritrovarsi proprio lì, nella città smeraldo, dove Dorothy incontra il mago e riesce a tornare a casa in un mondo nuovo.
Sofia Bordieri
Non si risolvono molte delle nostre aspettative, durante LA PLAZA di El Conde de Torrefiel. E forse non è nemmeno la cosa più frustrante: perché la maggior parte di queste attese sono giocate per farci sperare che accadano avvenimenti più efferati. Čechov – che ancora in questi giorni torna come nume – sosteneva che, a teatro, ogni pistola carica debba, a un certo punto, sparare. «Molti potrebbero guardare tranquillamente un neonato che viene preso a martellate in scena»: la scritta, che lampeggia tra i sopratitoli dello spettacolo, è indubbiamente una delle “pallottole”. Parte di un flusso di coscienza che Pablo Gisbert giustappone al nostro, come un pensiero collettivo su schermo. E il neonato poi compare.
La musica è quella giusta – un assolo di chitarra tratto da qualche canzone post-punk – e il contesto pure: un mercato musulmano, quello che sempre le sovracitate scritte ascrivono a un immaginario occidentale pervaso dal panico. Al centro sta in ginocchio un clochard, immobile, senza volto – come tutti i personaggi del resto: gli interpreti ricordano qualche fantasmagoria alla Twilight Zone di una comunità aliena(ta). Ma l’esplosione di violenza, che tanto siamo contenti di aver previsto, si disinnesca: il senzatetto raccoglie il bambino, e un altro frame di quelli che si alternano – lenti, difficili da “leggere” – prende il posto del mercato. Restiamo soli, nella speranza di esserci sbagliati riguardo ai nostri stati d’animo.
El Conde de Torrefiel sembra perfettamente consapevole di cosa il pubblico pensa, dell’abitudine di cui determinati strumenti mediali sono latori. Ed è forse per questo che l’interezza de LA PLAZA potrebbe essere percepita come una forma di esorcismo. Il pubblico riconosce in queste dinamiche narrative, rese esplicite, uno squadernamento dei processi interni alla drammaturgia. Lo spettacolo non taglia i momenti di noia, anzi: scene lunghe, lente, anche ripetute, talvolta prolisse, non concedono le possibilità di distrazione tipicamente survoltate nelle forme di intrattenimento usuali. Come se l’Infinite Jest di David Foster Wallace si aprisse e chiudesse senza parentesi, senza pop-up, all’interno di una lettura che costringe lo spettatore a fissare il vuoto, a contemplare un’immagine che può anche annoiare, ma che, prima di ogni altra cosa, permette di leggere nell’ordito di quanto sta vedendo. Forse, a risultare è una forma di ripensamento di questa attesa della “pistola cechoviana”. Il linguaggio dei meccanismi interni allo spettacolo porta a un tentativo di rinnovamento: il ripetersi di questo processo di sgonfiamento dei cliffhanger tiene lo spettatore attento, creando una nuova semantica di non-eventi che tanto arricchisce la poetica della compagnia spagnola.
La terraferma veneziana è costellata da antiche fortezze difensive, molte delle quali hanno trovato nuova vita riconvertendosi in spazi d’incontro e di controcultura: da luoghi di chiusura si sono così trasformati in ambienti aperti, liberi e creativi, vivaci crocevia di persone e comunità. Peccato siano anch’essi stati colpiti dalla dilagante e pervasiva gentrificazione: se le maggiori risorse investite da parte di Comune e Regione hanno contribuito a una necessaria messa in sicurezza e riqualificazione, tale processo sta inesorabilmente cancellando lo spirito “libero” dei Forti. Che lo spazio pubblico stesse scomparendo, sterminato dalla violenta colonizzazione capitalistica, non è una sorpresa; ma andare in questi luoghi e vederli depauperati, in soli pochi anni, della loro dimensione “selvaggia” desta un certo disorientamento. Non tutto è però perduto, per fortuna. Seppur in modo profondamente cambiato, a Forte Marghera è ancora concesso spazio, almeno per la creazione artistica: alcune stanze sono state rese agibili a mostre d’arte, installazioni, eventi musicali, una biblioteca e progetti di piccole associazioni.
È in uno stabile vicino alla Baia del Forte, Officine, che, salite le scale, si accede a due locali, una sala prove (anche foresteria) e uno spazio eventi gestito da C32, associazione impegnata a promuovere il dialogo tra artisti, territorio e istituzioni a favore delle performing arts. Questa volta, le porte di Officine si sono aperte per ospitare uno dei workshop della Biennale Teatro 2023, quello tenuto da FC Bergman. Il processo artistico del collettivo belga parte spesso dalla ricerca di ambienti alternativi alla classica scatola teatrale per trarne ispirazione o per ri-crearli, come nel caso di Het Land Nod, allestito in un capannone nella zona industriale di Marghera.
Insieme a Marie Vinck, Thomas Verstraeten, Stef Aerts e Joé Agemas, nove partecipanti: è l’ultima giornata di laboratorio e inizia attorno al tavolo, per una chiacchierata coi quattro membri del collettivo sulla loro pratica artistica. Fino a quel momento, infatti, l’avevano svelata soltanto in minima parte, per permettere ai laboratoristi di scoprirla con il puro fare. Il percorso – durato quattro intensi giorni – ha preso avvio da un input degli FC Bergman: girovagare per Venezia in cerca di un luogo che ispirasse una performance. Scattata una foto o registrato un video, ciascuno è stato chiamato a motivare la propria scelta, a trarne un tema e a decidere come affrontarlo. Una volta giunto a un’ideazione individuale, il processo si è sviluppato in piccoli gruppi da tre persone: l’esercizio e la sfida sono stati quelli di trovare modalità virtuose per far incontrare le diverse idee, contrattando e scendendo a compromessi. La sintesi fra pensieri e creatività ha avuto come punto di partenza la condivisione di suggestioni visive, per immaginare lo spazio in cui generare l’azione performativa.
Da qui, gli FC Bergman si sono inseriti nella fase di lavoro dei vari gruppi per porre alcune domande che scavano nelle motivazioni alla base delle scelte. L’obiettivo era insistere sull’individuazione di un’essenza, di quel nodo non sbrigliabile attorno al quale si intende costruire la scena. Il percorso ha portato a tre brevi esiti presentati negli spazi del laboratorio per condividere con l’intero gruppo l’evoluzione dei progetti e avere, al termine, un feedback. Il primo trio si è concentrato prevalentemente sull’allestimento scenico, il secondo ha sviluppato l’idea di un “archivio dell’impermanenza”, il terzo invece ha adattato il suo progetto site-specific allo spazio teatrale, utilizzando il video, la danza, la parola. Tutte le proposte sono state pensate per un pubblico partecipe, o quantomeno liberato dalla fruizione tradizionale e frontale; un aspetto che ha colpito molto FC Bergman. A questo punto è iniziata la fase finale di confronto collettivo, per approfondire le ragioni di alcune scelte.
Tanti dunque sono stati i momenti “a tavolino” in cui parlare, discutere e farsi domande, come abitualmente procede la compagnia fiamminga. Il workshop infatti aveva come presupposto quello di avvicinare i partecipanti al processo artistico del collettivo, il cui lavoro – svelano – si compone di lunghe fasi dedicate a una rigorosa ricerca concettuale, mentale e visiva fuori dalla scena. L’obiettivo è di raggiungere un alto grado di consapevolezza e di coerenza nei confronti di ciò che si intende fare sul palco, in modo tale che l’atto dell’allestimento e l’azione performativa rispecchino intenzioni e presupposti. Nonostante si sia trattato di un laboratorio di pochi giorni, gli esiti e le discussioni hanno generato uno scambio creativo e intellettuale intenso e ricco.
E Forte Marghera, così abitato e vissuto, recupera un po’ del suo “spirito libero”.
Arriva a Venezia Angélica Liddell per un atteso laboratorio. L’artista catalana ha la capacità di far vibrare ogni particella di materia che si addensa nel luogo teatrale. Si trema dinanzi ai suoi lavori scenici, per la crudezza delle azioni, delle parole e delle immagini, ma anche e soprattutto per la spregiudicatezza con cui ogni volta si conduce uno scandaglio della più infima natura umana. «Non vi dovrebbe importare ciò che dobbiamo essere ma ciò che siamo davvero», dice in Caridad, l’ultima sua creazione presentata in Italia poche settimane fa. Si è dunque atterriti e affascinati nel vedere le opere di Liddell, perché ci si ritrova davanti a qualcosa di primitivo, arcaico, che eccede il razionale, e al tempo stesso di poetico, per l’afflato lirico che informa ogni operazione scenica. È il verificarsi di un rituale e il dispiegarsi di un mondo totalmente estetico, strutturato a partire da suggestioni artistico-filosofiche. È rito e poesia, che può evocare il Pasolini di Orgia: «nel momento in cui la cultura è rito, cessa di obbedire alle sole norme della ragione, e ridiviene anche passione e mistero».
Angélica González, nata a Figueres nel 1966, nome d’arte Liddell, è regista, autrice, drammaturga e performer catalana: artista dalla caratura internazionale, la sua esperienza teatrale è tra le più peculiari nell’attuale panorama teatrale.
Delle sue creazioni, Liddell cura ogni aspetto. Scrive, dirige e costruisce la drammaturgia sonora e visiva, scegliendo i brani musicali, le scenografie e i costumi. Il suo linguaggio scenico accoglie modalità desunte da diverse forme d’espressione artistica, configurando esiti spettacolari dove convivono azioni modellate sulla body art, immagini sceniche ispirate alle arti visive e frammenti testuali dalla spietata durezza e dal grande spessore filosofico.
Il teatro di Liddell è votato al tragico, all’esplorazione del dolore umano e al sacro. Ha scritto in un suo saggio, Il piacere degli Dei: «ciò che è “umanissimo” si manifesta solo nel sacro e quel troppo umano, sulla scorta di Nietzsche, ci fa sprofondare nella nostra parte più profonda, più complessa e abissale, cioè nella tristezza». Da qui discende il motivo cardine della sua esperienza artistica: non la provocazione ma la trasgressione, la hybris che espone alla violenza di stupri, assassini e sputi.
Gli ultimi due lavori che Liddell ha presentato in Italia, Liebestod (2022) e Caridad (2023), sono un grido rabbioso a difesa dell’arte, oggi in pericolo. Secondo l’artista, come ha dichiarato in Un combattimento che si rispetti, «nell’arte la tragedia è stata sostituita dal senso del dovere, in altre parole, dalle responsabilità democratiche, dall’impegno sociale, dall’utilità […], da incentivi che sfociano in una cultura per punti, per temi (transgender, femminismo, integrazione sociale, diversità, ambiente, inclusione, cambio climatico, malattie rare ecc.), una cultura della rivendicazione, una cultura per decreto. Ma la bellezza non sarà mai un decreto».
L’arte viceversa è il regno della «supremazia estetica», un mondo di trasgressiva bellezza non soggetto alla morale, al messaggio positivo. «L’arte è etica per se». Liddell rivendica così l’autonomia dell’estetica e del bello; nel solco di questa concezione intesse un dialogo con i suoi artisti prediletti, ne riprende suggestioni e immagini, «per ricordare cos’era l’arte». Ecco, Liddell ci ricorda cos’è l’arte: «la ribellione contro l’utilità e la passione per la ribellione», come afferma in Caridad.
In una delle ultime interviste rilasciate in Italia, raccontava di star scrivendo un nuovo lavoro che si chiama Voodoo. Alla Biennale Teatro 2023, in continuità evidentemente con il processo creativo che sta seguendo, Liddell terrà un workshop con lo stesso titolo. È dunque in gestazione un nuovo capitolo della storia artistica di Liddell, un nuovo spaccato d’arte per una nuova catarsi. E a chi proietta la sua morale sul palco, lei risponde, parafrasando un titolo di Rodrigo García: «Dovevate rimanervene a casa, stronzi».