Ieri anche Venezia si aspettava l’uragano.
E dopo otto giorni in cui scrivere delle geografie dall’altra parte dell’arcobaleno, un po’ ci siamo voluti convincere di aver attirato i tornadi che portano a Oz.
Poi più nulla, l’allerta meteo è passata. Eppure, un po’ del miraggio di Emerald City ha pervaso anche la nostra redazione, che intanto si rifugiava attorno a un tavolo – a parlare, a interrogarsi su quali sentieri dorati la giovane critica possa seguire.
Gianni Morandi lo cantava, non sarà solo una chimera. Anche noi vogliamo crederlo.
Non può che essere un buon auspicio che Anima, a Mestre, tra le infrastrutture all’aperto del Parco Albanese, sia stato risparmiato dal maltempo. Il pubblico della Biennale Teatro 2023 si apre così alle vertigini – digitali, danzate – di una performance che fa della natura un soggetto ri-scritto, re-inventato, “rinascimentale” – come un panorama elettrico alla Bill Viola.
Tentiamo qualcosa di nuovo. I segni sono tutti propizi: mettiamo mano all’idea che gli spettacoli di questa Biennale ci stiano parlando di come i nostri occhi si sono adattati al buio e alla disillusione. Oggi è tempo di ricrederci, di battere il tornado.
Leonardo Ravioli
Siamo a Mestre, nel suggestivo contesto in parte naturale in parte antropizzato del Parco Albanese. Qui il tempo si è fermato per sessanta minuti. Lo spettatore è ipnotizzato. Sollecitato da uno sfondo sonoro dal ritmo lento e dall’immagine dello scorrere di un corso d’acqua, rivolge il suo sguardo alla performer Chloé Moglia, seduta a testa in giù su un’impalcatura che si staglia, da metà spettacolo in poi, al centro della scena. Siamo ormai immersi nella performance-installazione Anima, una creazione dell’artista visiva Noémie Goudal e della regista Maëlle Poésy.
Stando a quanto riportato nelle note di regia, le due artiste si sono ispirate alle scoperte dello scienziato James Lovelock, secondo le quali «la Terra deve essere considerata come un’entità in cui tutte le creature viventi sono collegate, attraverso un ecosistema interdipendente». Ora, in questo complesso unitario si verificano mutamenti sostanziali che comportano, dato il legame tra le parti, una sorta di effetto domino tale per cui ciò che si verifica a nord del mondo ha ripercussioni su ciò che accade nel sud. In sintesi, quelle enunciate sono le coordinate teoriche che hanno ispirato il lavoro; Noémie Goudal è nota per l’attivazione di un processo creativo che nasce nel solco di ricerche tra ecologia e antropologia.
La performance-installazione assume dunque come motivo tematico principale le trasformazioni ambientali. Da qui, si ricava il principio cardine su cui si regge l’operazione artistica: quello della metamorfosi, che si declina in una dinamica di costruzione e distruzione che informa la prima parte dello spettacolo.
Tre grandi schermi sono ciò che lo spettatore vede all’inizio. Tre teli su cui sono proiettate le immagini realistiche di alcune palme. A seguire, il filmato proiettato mostra dei tecnici che lavorano alla loro costruzione, montando pannelli e strutture. In ciò, però, si verifica una parcellizzazione dell’immagine iniziale e alla fine una sua destrutturazione. Come a dire che l’intervento dell’uomo denaturalizza la natura. Poi le fiamme. Da una piccola scintilla esplode un incendio. La creazione visuale ora indugia nel mostrare le piante date al fuoco. Bruciano. Con un effetto di carta che si dissolve, dalle ceneri della vegetazione precedente emerge una nuova immagine: altre palme, poi ancora altre fiamme. L’ultimo espediente di questa prima parte vocata al linguaggio dell’installazione visiva mostra uno degli schermi che gradualmente si decompone. Fiotti d’acqua sgorgano dal telo e lo distruggono lentamente.
Si ha poi un cambio di registro espressivo. Lo schermo centrale si ritira, lasciando emergere l’impalcatura dove Chloé Moglia agirà in pose funamboliche che sfidano la gravità. Il suo lavoro è centrato sulla sospensione, ovvero sul suo essere appesa fisicamente ai pali dell’impalcatura e su di un ritmo dilatato, un tono leggero che informa la seconda parte della performance. I gesti aerei di Moglia si fissano dunque in posture che la vedono a lungo reggersi con un solo braccio al ferro della struttura. La performer affronta il vuoto, parla di leggerezza ma anche del pericolo della caduta, mostra un gesto atletico mentre racconta la fragilità.
Il cambio di registro è sottolineato anche dal disegno sonoro di Chloé Thévenin, compositrice, produttrice e dj di musica elettronica. Ad una prima parte molto ritmata, soprattutto in occasione degli incendi, dove il suono diventa una percussione tanto intensa da portare il cuore alla gola, succede poi uno sfondo sonoro molto più dilatato, lento, sfumato. Forte o debole che sia, il progetto acustico di Thévenin quasi magicamente entra in relazione con le immagini cui lo spettatore assiste, generando un’atmosfera intensa che ingloba gli astanti e li sollecita ad una più forte percezione delle immagini sceniche.
Nell’incrocio di linguaggi che fonde arti visive, gesti funambolici e sfondi acustici c’è Anima: il racconto delle metamorfosi del mondo naturale che tengono l’uomo sospeso ad una trave, in bilico, ogni sua azione è tesa pericolosamente tra la costruzione e la distruzione. La performance-installazione è un’esperienza estetica-estatica di contemplazione che nel decorrere ipnotico di suoni e immagini racconta il rapporto dell’essere umano con la natura.
Quando la ricerca artistica è indissolubile da un profondo credo sociopolitico, il focus, seppur sfaccettato, rimane unico. È questo il caso del Khashabi Ensemble, gruppo teatrale palestinese indipendente nato nel 2011 e diretto dal regista e drammaturgo Bashar Murkus. Il modus operandi dell’organico è ravvisabile già, nella scelta del luogo di residenza, Haifa, una città della Palestina occupata, e, nello specifico, il quartiere Wadi Salib, uno dei luoghi svuotati dalla maggior parte dei suoi abitanti originari nel 1948, anno di fondazione dello stato di Israele.
La Palestina appartiene ai Paesi arabi localizzati nel Mashreq, quella zona che comprende gli Stati situati ad est rispetto al Cairo. Come ben delinea Monica Ruocco nel suo volume Storia del teatro arabo. Dalla nahdah a oggi (2010), è un territorio che si avvia a praticare il teatro – inteso come rappresentazione di un testo drammatico in un luogo appositamente deputato – a partire dalla seconda metà dell’800, quando inizia a delinearsi una drammaturgia araba moderna scevra da influssi di manifestazioni performative precedenti. L’attività performativa comincia a svilupparsi in maniera continua da allora, periodo in cui viene consacrata la sua importanza all’interno del panorama culturale, convivendo spesso con espressioni legate alle politiche statali.
Il 1948 rappresenta un turning point politico e culturale, con la cosiddetta nakbah (letteralmente “catastrofe”) palestinese, e il teatro per i paesi del Mashreq, in quel periodo, si rivela uno strumento efficace per la delineazione delle molteplici identità nazionali. Ciò avviene anche per le rappresentazioni palestinesi che subiscono, però, una brusca interruzione a causa della sistematica dearabizzazione statale e dell’esodo a cui sono costretti migliaia di abitanti. È a partire dagli anni Sessanta che la drammaturgia ritrova un rinnovato vigore artistico, dove è stato centrale il contributo dato da molte minoranze, insieme alla grande influenza dell’opera brechtiana e di altri esponenti di teatro politico, da Piscator a Weiss. La svolta qualitativa avviene a partire dagli anni Ottanta grazie ad alcune compagnie come al-Hakawātī (“Il narratore”) nata per opera di François Abū Sālim, che nel 1983 ha rilevato il più vecchio cinema di Gerusalemme Est trasformandolo nella prima sala teatrale palestinese, oggi teatro nazionale coproduttore, tra l’altro, di Milk del Khashabi Ensemble, in programma alla Biennale Teatro 2023.
Il gruppo si è inserito in quel filone “necessario”, percorso dalle poche compagnie indipendenti attive, per spezzare il monopolio statale sulla produzione artistica con approcci interdisciplinari e progetti internazionali focalizzati, non tanto sulla guerra, quanto sulle conseguenze di essa sull’universo morale degli individui che la subiscono. Esemplare, in tal senso, è The Parallel Time (2014), uno spettacolo cruciale nella storia del teatro contemporaneo palestinese, che ha causato una successione di disappunti politici culminati nel netto taglio dei fondi al teatro Al-Midan, dove lo spettacolo è stato portato in scena. Un evento che ricorda l’aspra accoglienza di Majdalun (1969) uno spettacolo di Roger Assaf (vincitore del Leone d’Oro alla carriera nel 2008) apertamente pro-palestinese e per questo osteggiato dalle autorità.
Nonostante il quadro avverso, il Khashabi Ensemble è oggi rappresentante del contesto teatrale non statale, motore di messa in discussione per una cultura indipendente. Superando la censura e la pressione delle governance, sfida quel territorio ombroso minato da tabù politici, sociali e culturali. La volontà di condividere la propria sede, con la promozione di residenze artistiche, mira a rendere la produzione centrifuga, capillare e diversificata, accogliendo artisti intenti a creare, ricercare e performare liberamente forme alternative di teatro e arte. Dal 2011, Murkus esprime il suo linguaggio performativo multidisciplinare rivolgendosi alle emozioni intime e profonde degli spettatori, con l’intento di sollecitare la loro vulnerabilità. Nel suo ultimo lavoro, Milk, protagonista è il tempo spezzato da un disastro, matrice di una stagione senza durata né fine che, in una vasca di latte sprecato, mette in crisi il rapporto tra passato e presente, madri e figli, nascita e morte.
Vaporetto numero 8. Le 17:40 di una domenica di giugno. Partenza dai Giardini della Biennale, direzione San Basilio.
Le acque della laguna vengono attraversate da una moltitudine di turisti, abitanti e teatranti: sui loro volti, ancora evidenti le tracce delle giornate che hanno vissuto. Mi chiedo cosa si intraveda nel mio. Quale Venezia posso raccontare agli altri? Mi domando quale Venezia possa appartenermi. Con l’“esercito di turisti” pronto all’invasione – come l’ha definito fra gli altri lo scrittore olandese Cees Nooteboom – ho poco in comune; con gli abitanti ancora meno. E dubito anche di far parte della comunità dei teatranti, nonostante in questa mia esperienza al workshop della Biennale Teatro mi sia infiltrata tra loro con la conoscenza teorica di un teatro che non è prassi. Il mio sguardo è frammentario: si nutre di impressioni, cartoline e brandelli di una città che è costruita proprio sulla sua parzialità. Nessuno può abbracciare Venezia nella sua interezza.
Eppure, nel corso dei secoli e da tanti punti di vista, autori dalla provenienza geografica più disparata hanno tentato di farlo. La città si è sovrapposta ai luoghi di origine e questi si sono, a loro volta, stratificati nella configurazione urbana di Venezia, in un gioco combinatorio che ne ha ridefinito la topografia. Le calli si sono confuse in una massa indistinta di tragitti solitari, con un punto di partenza che tuttavia è rimasto uguale nel rappresentare un’alternativa al più antico approdo via mare: la stazione Santa Lucia con i suoi gradini. Lì, ognuno di noi ha respirato quell’odore di “alghe marine sotto zero”, “sinonimo di felicità” che Iosif Brodskij ha abilmente coniato in Fondamenta degli incurabili e che poi è diventato universale. Ma se si pensa alla forza con la quale aggredisce, quest’odore è tutt’altro che invasivo. È evocativo, come scrive Simone Weil nel dramma Venezia salva, della “pace di Venezia” e della “sua ignoranza di ciò che l’attende”. Un’ignoranza che coinvolge chiunque approdi in laguna, rispetto alla quale sarà la sua esperienza: se sarà una città “continua”, “sottile” o “di morti”.
Di questa suggestione calviniana, partecipa anche la Biennale Teatro. Con le sedi dislocate tra Arsenale, Ca’ Giustinian, La Fenice e altri luoghi, crea ogni anno una propria città, e costringe questo tipo umano – di spettatori, registi e performer – che si riunisce per l’occasione, ad abitare tante realtà diverse. Spinto da una curiosità, che nel caso del teatro va allenata a cogliere la meraviglia, partecipa attivamente e criticamente agli spettacoli. Il presupposto necessario è dunque sempre lo stesso: sospendere la propria incredulità e, come sosteneva Samuel T. Coleridge, lasciarsi guidare dal potere immaginifico nel momento stesso in cui si varca l’ingresso della sala e si prende posto. Ma scendere così tanto a patti con la scena teatrale contemporanea, e nello specifico con le proposte di questa prima settimana di Biennale Teatro, è tutt’altro che semplice: perché alcuni spettacoli – come Het Land Nod di FC Bergman o LA PLAZA di El Conde de Torrefiel – prevedono un certo grado di attenzione ai dettagli e una propensione all’astrazione a cui non siamo abituati; e altri, come nel caso di Naturae di Armando Punzo, spingono a lasciare libero quel potere analogico e suggestivo tipico del “bambino” per riuscire a tracciare le relazioni più impensabili. Allora, non resta che domandarsi come abitare il mondo del teatro e come porsi davanti a un panorama tanto vario, che in fondo è la stessa domanda che coglie il viaggiatore al suo arrivo a Venezia.
Difficile dare una risposta, così come un’indicazione. Per me, resta il vaporetto numero 8. Quello che, a detta di molti veneziani, non esiste, e io sono certa di aver preso.