fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 3
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 3

Nel novero dei mestieri strampalati rientra, a pieno titolo, quello di critico teatrale. Sempre che di mestiere si tratti (ed è tutto da dimostrare), il percorso del critico è comunque obbligato a un confronto sistematico con la questione linguistica. Si tratta, insomma, di interrogarsi non solo su cosa scrivere, ma sul come. Dunque, in un laboratorio di critica, non potevamo non dare spazio a scritture contaminate, diverse, anche fuori formato, per raccontare quanto accade. Così, la recensione allo spettacolo di Danio Manfredini si muta in un dialogo, il catalogo del Festival diventa un libro-mondo da esplorare, e infine un inatteso e neonato ‘Collettivo Select’ si cimenta nell’analisi di quei barthesiani ‘miti d’oggi’ che sono gli oggetti, partendo dal surreale assunto che un ‘oggetto’ è un ‘piccolo oggi’.

Ci siamo interrogati su un’ipotetica paretimologia della parola ‘oggetti’ e ci siamo scoperti assediati, circondati e osservati da una catasta di cose: souvenir inutili, cassettoni sensibili, sedie infedeli, tappi volanti, ombrelli inattesi, biglietti virtuali e corredi imponenti. I teatri e i luoghi di queste giornate si sono ‘oggettivati’ e sono stati animati da ognuno di loro, che si tramutano in percezione, impressione e memoria.

Sono riflessioni d’occasione, quelle che seguono, che ci hanno colto nel corso di una quotidianità fuori dal Comune (nessuno di noi è di Venezia), in questo Festival teatrale fra calli e pontili.

Per quel che ci riguarda, non sappiamo ancora se siamo un collettivo ma indubbiamente siamo una comunità. Come tale, vogliamo riordinare le idee e le opinioni condivise prima e dopo gli spettacoli di questa Biennale Teatro. Da un pingpong ininterrotto di scambi complementari abbiamo iniziato a mettere a fuoco gli oggetti che incrociamo, tentando di creare una lista di suppellettili senza indagarne l’ontologia ma solo evocandone la manifestazione. Nell’attesa che gli oggetti, come gridava Majakovskij, prima o poi si rivoltino, ecco una prima paretimologia, cioè una ricostruzione non filologica ma tendenziosa del significato di una parola, che può rinnovarne il senso aprendo a prospettive diverse e nuove.

Oggetti < vezz. di ‘oggi’
Un ‘oggi piccino’, un oggi vezzeggiato, un po’ usurato, pronto all’uso immediato, al consumo feroce, oppure diluito e masticato.
L’oggetti trova la sua dimensione in base al momento, alle persone, al tavolo, al menù dell’oggi che non è quello dell’oggetti. Oggetti è vittima e arma, è uno e molteplice, si sgretola nella memoria, si ciba della polvere del palco che scricchiola, degli occhi che lo avvistano e che lo interpretano secondo i ricordi della loro infanzia.

Segue un primo elenco da usarsi per l’orientamento alla Biennale Teatro 2021.

ALCOL: in fila per uno spritz, post Warlikowski, nel bar fuori dal Teatro alle Tese, l’interprete magnifico del “gobbo”, fuggito dal palco in pausa, ma ancora in costume di scena, richiede in un creolo italo-polacco qualche forma alcolica. Il liquido etilico, compagno necessario in un momento di celebrazione da Leone d’Oro, si trasforma in linguaggio universale, simbolo di ritorno al rito collettivo.
BOLLITORE: l’attesa che il bollitore in scena compia il suo corso, fino al fischio finale, rende il pubblico inquieto. Siamo alla prima dello spettacolo di Paolo Costantini, il cui titolo è molto lungo. Si sa che arriverà l’acqua bollente, ma quei minuti non passano. E se sgorgasse fuoco anziché acqua?
CARTELLONE: scendendo dal treno e uscendo dalla stazione di S. Lucia a Venezia si vede immediatamente il cartellone della Biennale Teatro. È lì, permanente, blu. Venezia è disseminata da indicazioni che pian piano diventano familiari per chi passa, modificando il paesaggio della città.
GOMENA: a ogni fermata del vaporetto il pronipote degli antichi marinai veneziani esce dalla sua cabina e fa passare una gomena attorno a una piccola bitta biforcuta. I suoi trefoli si stirano, si raccolgono, si stabilizzano: domano la massa dell’imbarcazione, certificano il controllo dell’elasticità sulla durezza.    

Continuiamo a interrogarci e amplieremo questo catalogo, in attesa che altri oggetti si mostrino.

Non sappiamo se i nostri contributi saranno testimoni di questa era teatrale o se verranno sostituiti da un pop-up di sandali tedeschi in saldo. Oggi questo elenco è uno strumento, domani memoria anche solo per noi (sic!).

 

* da Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (Einaudi, 2015).

La carta appena stampata ha un odore avvolgente in grado di mandare in estasi studiosi e topi di biblioteca. Questo aroma si sprigiona dalle pagine del nuovo catalogo della Biennale Teatro Blue, realizzato con il concept dei direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte), l’editing di Eleonora De Leo e le grafiche di Headline. 

Ogni mostra, manifestazione o rassegna possiede un libro, più o meno voluminoso, in cui sono contenute tutte le opere e gli artisti che vi prendono parte. Nella storia della Biennale Teatro i cataloghi si sono evoluti adattandosi ai cambiamenti che questa realtà ha assunto in 49 edizioni. Nella fascistissima Italia del 1939 una maschera bianca con costume nero occupa la copertina del 17. Festival. I programmi di musica, teatro e cinema sono tradotti in inglese, francese, tedesco sotto a foto di scena in bianco e nero. Negli anni Settanta, quando il Festival diventa un Laboratorio internazionale sotto la direzione artistica di Luca Ronconi, libretti di sala e volumi originali prendono il posto del catalogo tout court. È il caso di Laboratorio ’75, curato da Franco Quadri, dove sono riportate le scientific session dei convegni con Grotowski a Mirano. 

Sfogliando il catalogo bilingue – italiano e inglese – dell’edizione in corso veniamo sedotti dalle diverse possibilità di blue che si traducono con una sfumatura diversa per ogni artista, evento o attività collaterale. Dal pervinca al navy, passando per lo ‘spagnolo’, troviamo tutto ciò che serve per prepararci agli spettacoli: le biografie di attori, registi, musicisti e maestri, le loro idee e convinzioni, foto di scena e, infine, frasi o citazioni in cui si identificano. Non solo. Entriamo nel calore di una dimensione intima e familiare attraverso scatti d’infanzia o reazioni in quest’anno di forzato confino dal teatro. 

Il grande lavoro grafico rende ogni pagina unica, a sottolineare l’originalità di ogni artista presentato. Variando caratteri, disposizione delle foto e sfumature, si rompe lo schema rigido della riga e della pagina, il foglio diventa uno spazio di libertà compositiva. Qui il lettore può informarsi mediante un’interazione creativa con il testo, la forma estetica delle parole attrae il suo sguardo e fa venir voglia di leggere. Un volume così complesso e composito non è di facile trasporto, ma alla fine di ogni presentazione c’è una busta con un libretto estraibile – anche questo ben curato nell’editing e nella grafica – che, una volta seduti sulle poltroncine, stimola l’atmosfera prima di ogni spettacolo. 

La Biennale Teatro 2021, ora, ha la sua summa preziosa che il visitatore può conservare come traccia materiale di ciò che ha visto e il ricercatore del futuro utilizzerà per ricostruire un evento passato. Un’impronta nel tempo in cui si afferma fortemente: chi, cosa, quando, dove e perché.  

Il 4 luglio al Teatro Piccolo Arsenale è andato in scena il canto di una marcia infernale: Nel lago del cor, spettacolo di Danio Manfredini. Il titolo si ispira a un verso del primo canto dell’Inferno di Dante, che qui si colora e si scolora delle tinte della Shoah.
Manfredini si aggira per la scena con addosso la casacca a righe dei prigionieri dei lager nazisti. Intorno a lui sono proiettati i suoi disegni ispirati alla tragedia. In scena anche Francesco Pini, un angelo polistrumentista in divisa militare, unica figura salvifica all’interno di un orizzonte di morte. Il lamento di Manfredini è accompagnato da un continuo movimento, in cui citazioni di autori-simbolo della Shoah si frammistano a una sua elaborazione testuale.

Abbiamo scelto la forma dialogica per raccontare e analizzare un lavoro così complesso, problematico e delicato. Dialogano M. ed E.

M.: Secondo te perché Manfredini si approccia in questo momento alla Shoah? E, soprattutto, perché in questo modo così mimetico? Cosa sta cercando?

E.: Esonda dalla scena la sua fatica, la sua ‘compassione’, nel senso etimologico del termine di ‘provare lo stesso stato d’animo’, restituendo al pubblico l’angoscia di un deportato che vede il domani come una chimera. Si parla di un inferno per non dimenticarlo, come una sorta di promemoria personale poi condiviso, a tratti urlato.

M.: Riesce a trasmettere un senso di estenuazione con una sequenza ininterrotta di movimenti da marionetta. Scattoso, affannato, grottesco. Viene messa in scena un’identificazione, la cui radice sta in una sofferenza estremamente personale, come se la Shoah gli servisse da metafora. A che serve una maschera?

E.: Non ne ho visto un uso filologico. Credo che serva a segnare esteticamente la disumanizzazione del lager; lo dice anche in scena: “un tempo non ero così”, e il pensiero dello spettatore vola verso un viso in salute, non segnato dall’abisso. Maschera e disegni in questo caso sono quello che i greci chiamavano la sfraghis, il ‘timbro di riconoscimento’ di un artista sulla sua opera, o, comunque, ne costituiscono una parte fondamentale, essendo ideati e realizzati da lui stesso. Un artigianato teatrale che si riempie di significato. Per te le illustrazioni cosa danno in più alle azioni e alle parole del protagonista?

M: Credo che, attraverso di essi, Manfredini si voglia riappropriare della Storia. L’autore, infatti, riconduce a sé la Shoah, se la misura addosso. Sembra chiedersi non tanto cosa è stata, ma “cosa fa a me?”. Pensi ci sia un collegamento tra questa operazione e il ritorno alla narrazione?

E.: Penso che Manfredini abbia voluto usare tutti gli strumenti artistici a sua immediata disposizione per non essere complice di un oblio imperdonabile. Usa Levi, Arendt, Gradowski, si ‘serve’ pure di Dante, portandoci non in un lago del cor, ma in un Cocito ghiacciato. A volte le parole recitate sono quasi superflue rispetto a ciò che vediamo. La pioggia scrosciante che si sentiva fuori dal teatro era sonoramente perfetta per la sua solitudine e impotenza in scena.

M.: Quasi tutti gli interventi musicali sono riconducibili al folk-rock americano: si parla di un sé solitario, senza una prospettiva, ma che deve tenere duro. Di nuovo, una personalizzazione. Solo per un attimo il discorso si fa collettivo: subito prima della fine, quando Manfredini danza sulle note di una musica yiddish straordinaria. È quasi un momento di gioia struggente. Una sorta di liberazione. Anche se Levi scriveva che spesso sono i semplici di cuore a far coincidere liberazione con felicità. Ma, come abbiamo detto, questo è uno spettacolo che programmaticamente vuole essere semplice: trasmettere una forte emozione a prezzo di un disallineamento rispetto a quello che è stato. 

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