fbpx Biennale Teatro 2021 | Giorno 9
La Biennale di Venezia

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Biennale College Teatro

Workshop

Andrea Porcheddu
Giorno 9

Musica e teatro vengono spesso definite come arti sorelle, ma la loro relazione non si può categorizzare in modo assoluto: cambia durante le epoche o, addirittura, di spettacolo in spettacolo. La performance di Kae Tempest, che intreccia suono, parola poetica e scena, è un’ulteriore dimostrazione di questa relazione complessa. Ma a Venezia è anche tempo di fare i bagagli. Il Collettivo Select mette in valigia una nuova lista di oggetti dalla paraetimologia di “souvenir”: un elenco di strumenti utili da portare con sé o da abbandonare, il cui valore – forse – tornerà nel tempo. 

Da quando è nato il teatro, la musica ha sempre fatto parte della sua vita (e viceversa), eppure spesso viene considerata come un’aggiunta o un apparato a sé. Nei secoli, si è consumato un distacco tra le due arti: se inizialmente sembravano inscindibili, in seguito hanno raggiunto un’autonomia e percorso strade diverse, anche se mantenendo sempre dei punti in contatto.
Ad oggi, le sperimentazioni in entrambi i campi portano a un’infinità di possibili combinazioni. Sicuramente la musica a teatro c’è, ed è fondamentale. Ma in che modo? Che ruolo ha? È una distrazione o un aiuto all’immedesimazione?
Per rispondere a queste domande, immaginiamo di raccogliere stralci di conversazione tra diversi testimoni nei secoli.
Spettatore presente al teatro greco di Siracusa nel V sec a.C.: “La musica cantata dal coro è tutto: commenta la scena, ha una visione onnisciente della storia narrata”.
Spettatore romano in un foro a parlare con un amico: “Aò, hai sentito quel tibicen che bravo? Senza di lui non avrei mai potuto capire cosa stesse succedendo in scena”.
Spettatore del Cinquecento: “Finalmente questa sera vado a vedere una troupe comica che porta in scena un’opera in musica”.
Spettatore veneziano dell’Ottocento: “Fioi, gavì sentio che Wagner xe chì a Venessia? El sta al Danieli, ciò, doman vado a saludarlo e a domandarghe del Tristano e Isotta”.
Spettatore musicista del Novecento: “Questi registi di oggi, sempre a sfruttare i musicisti, ci chiedono di suonare come se fossimo dei jukebox: ci mettono ovunque, sul palco, in buca… e mai un grazie!”
Spettatore di oggi alla Biennale Teatro: “La musica mi riporta alla memoria dei ricordi lontani che pensavo di aver dimenticato”.

È un gioco, ovviamente. Ma questi “spettatori”, che sono semplici testimoni delle varie epoche, confermerebbero, senza dubbio, che l’arte dei suoni ha sempre fatto parte della vita, del teatro e non solo. Il XXI secolo e in particolare il presente è pervaso da tappeti sonori: dalla musica perenne nei bar o nei negozi, al rumore quotidiano in campagna come in città, fino alla scelta consapevole di assistere a un concerto o di ascoltare canzoni nelle cuffiette. Così come nella realtà in cui viviamo, anche sul palco – che altro non riporta che uno spaccato di vita, di storia, di memoria – la musica è fondamentale, dà il ritmo e scandisce il tempo.
Tre esempi esplicativi della sua funzione sono emersi durante la Biennale Teatro. In We Are Leaving di Krzysztof Warlikowski la musica diventa un personaggio al pari degli attori. Gli interpreti vengono trasportati e guidati dai suoni in un susseguirsi di scene funeree e di festa, nell’eterna lotta tra vita e morte portata in scena.
Danio Manfredini nello spettacolo Nel lago del cor pone un interrogativo sul genere musicale: country e rock in un campo di concentramento? È possibile? È straniante o inclusivo? Vuole far ballare o pensare? È la dialettica del teatro che la musica può e deve creare in questo caso. Citando Bertolt Brecht: “Eppure, ormai che siamo in ballo, balliamo”.
Thomas Ostermeier usa le canzoni per evocare ricordi. Édouard Louis, nel suo testo Qui a tué mon père, riporta alla memoria la scena del concerto che aveva allestito da bambino e rivive il doloroso rifiuto del padre del suo essere omosessuale. Il pubblico è coinvolto dalla canzone degli Aqua, in sala si sente qualche voce che sussurra e canticchia il famoso testo di Barbie Girl.
Connettere, straniare, rievocare… Diversi sono i ruoli della musica. Lo spettatore si ritrova avvolto da molteplici significati dove si riconosce e si immedesima. Non c’è una definizione univoca, ma sicuramente un punto fondamentale è che il suono muove e accompagna. Prende per mano l’attore, la scena e il pubblico, e li unisce in un sentire dove non è necessario solo pensare ma anche lasciarsi trasportare.

“Tutto è santo, tutto è santo” ripeteva il centauro Chirone, interpretato da Laurent Terzieff, all’inizio della Medea di Pasolini. L’atmosfera che si respira durante il conferimento del Leone d’Argento a Kae Tempest pare far rivivere quelle parole.

Kae Tempest, artista dal “multiforme ingegno”, ha rilasciato nell’agosto 2020 un comunicato in cui si rende nota l’identità non binaria, plurale, il cambio di nome (da Kate a Kae) e si richiede l’utilizzo dei pronomi they/them per rivolgersi alla sua persona; in questo articolo si farà riferimento a Tempest utilizzando dunque la terza persona plurale, nel rispetto delle volontà sopra descritte.

L’emozione avvolge i partecipanti alla celebrazione del Leone d’Argento, vincitori compresi. Tempest si definiscono ‘grati’ verso tutti coloro che permettono che il loro lavoro venga conosciuto in Italia (la casa editrice E/O, il traduttore Riccardo Duranti, la regista Giorgina Pi, il presidente e i direttori della Biennale). La gratitudine è un tema che tornerà anche nella chiacchierata post-premiazione, durante la quale si parla di poesia, di musica, di teatro classico e contemporaneo, di coraggio.
Courage for me is integrity in action”, rispondono, quando si chiede loro una definizione. Rimanere saldi a se stessi e ai propri principi – come dichiarato in Hold your own, testo-manifesto della poetica di Tempest – è ribadito ancora una volta in un sorriso che cerca lo sguardo del pubblico. Uscire dai tracciati conosciuti, aprirsi al mondo e cercare una vicinanza emotiva con l’altro: tutto questo è contenuto nella ricerca artistica, ma dovrebbe anche essere messo in pratica nel vivere quotidiano.
Dichiarano che il mito è ovunque, ed è in tutto ciò che verrà raccontato e che avrà un valore per il prossimo. L’incontro convince gli astanti di una cosa: nessuno a questo mondo che riesca a creare un contatto con il prossimo è ininfluente.

L’enthusiasmòs della creazione artistica di Tempest, nelle sue diverse manifestazioni, ha origine da una necessità che non è facile definire, e che forse è vano anche tentare di delimitare. Il loro lavoro di scrittura si esprime, in parte, nel cercare nei classici le storie di oggi, reinterpretandole con parole che arrivano a volte inattese, come un rapsodo che improvvisa con sapienza gli esametri di fronte a un pubblico partecipe. Il loro prossimo lavoro, ispirato al Filottete di Sofocle, vedrà presto la luce sul palco del National Theatre, ma per la Biennale Teatro è stata organizzata una perfomance di spoken word tratta dal loro quarto album, The Book of Traps and Lessons (2019), al Teatro Goldoni.
Nessun accompagnamento musicale, nessuna scenografia. Un fondale illuminato di blu. Sul palco, solo Tempest, in connessione totale con il numeroso pubblico. I versi sembrano scaturire da una forza viscerale, che racconta ciò che si sente, non impone ciò che si sa. A conclusione di 45 minuti di esibizione trascinante, viene interpretata la commovente People’s faces. I toni diventano quelli di un rito catartico, in cui le anime di ognuno sono invitate ad aprirsi verso gli altri, nonostante il dolore, la fatica, le delusioni:

It's hard
None of this was written in stone
There is nothing we're forbidden to know
And I can feel things changing
Even when I'm weak and I'm breaking
I'll stand weeping at the train station
'Cause I can see your faces
There is so much peace to be found in people's faces

Si esce dal teatro pronti ad accogliere l’invito all’amore di questi nuovi aedi della contemporaneità e, fra le calli, riecheggia con una nuova forza il mantra di Chirone: “Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo”.

Di per sé, il souvenir non è un oggetto che meriti particolare attenzione. Solitamente, anzi, si manifesta nelle sembianze delle boule de neige, modellini in scala di un qualche monumento, portafogli, t-shirt o sottobicchieri con scritto il nome di una città. Non potendo che rimandare all’idea astratta di un luogo o di un’esperienza, cercando di essere il più possibile onnicomprensivo, il souvenir finisce piuttosto per essere onnivoro e riferirsi soltanto a se stesso.
Se gli “oggetti” del nostro primo articolo erano ricavati dalla manipolazione della parola “oggi”, qui ci appoggiamo all’etimologia effettiva del termine, sostenuta da fior di dizionari:

Subvenire < “venire in aiuto”.
La nostra prima lista era pensata per orientarsi all’interno dello spazio veneziano. Man mano che passano i giorni, alla Biennale Teatro, essa si è trasformata: guardando da oggi à rebours, è diventata un insieme di strumenti utili, invece, a ritrovarsi nel tempo.
Segue un secondo elenco, da usarsi in caso di nostalgia.
BADGE: una tessera appesa al collo capace di inquadrare la singola identità diventa chiave d’ingresso per luoghi altrimenti inaccessibili e pretesto per un momentaneo (o forse definitivo) scambio di persona. Chi è chi? Siamo i nostri badge?
BANCONOTA 30 EURO: Roberto Latini in scena come Gino Ribolla viene sommerso da una pioggia di pezzi di carta, l’aria li spinge verso la platea. Troviamo il coraggio, alla fine dello spettacolo, di andare a prelevarli: sono ricostruzioni di una banconota da 30 euro, così ben fatte da sembrare vere. Ancora una volta, il teatro ci ricorda che le cose false possono lasciare ricompense verissime.
OLIVA: qui a Venezia, gli spritz, di qualunque tipologia, vengono serviti con un’oliva infilzata. C’è chi non la vuole, chi ne vuole due, chi la lascia macerare nel mix di prosecco e campari o aperol per godersela dopo, bella impregnata d’ebbrezza. E anche se agli aperitivi si trangugiano cichetti e tramezzini gonfi come elefanti incinti, sarà quell’oliva a darci gusto al palato, a restarci impressa, come e quanto uno spettacolo ben riuscito.
POP-POP: Édouard Louis, verso la fine di Qui a tué mon père, lancia contro le foto di alcuni politici francesi dei petardi scoppiettanti. Finito lo spettacolo, resta la voglia di procurarsene una scatolina…
SCUDI ANTISOMMOSSA: Giacciono addossati a un muro decine di scudi antisommossa. I loro proprietari, venuti a presidiare il G20, sono seduti a chiacchierare sui basamenti di alcuni lampioni. Sotto l’implacabile sole veneziano potrebbero anche sciogliersi.
STURALAVANDINI: si vive insieme e si soffre insieme, anche davanti a spiacevoli imprevisti notturni come un lavandino otturato. Di fronte a queste dure sfide bisogna armarsi di olio di gomito e buona volontà, anche se non sempre basta a sbloccare una situazione e a far fluire il melmoso liquido stagnante. Meglio dimenticarsene, se si può.

Abbiamo scoperto di essere un collettivo, oltre la comunità teatrale a cui apparteniamo. Gli oggetti che abbiamo incontrato sono diventati ricordi comuni, fatti di tracce, il cui significato potenziale arriva a trascenderne l’utilità.
La dichiarazione d'intenti da noi espressa è diventata condivisione di memorie. Senza dubbio abbiamo ancora bisogno di bussole, ma portarsi via qualcosa può essere una buona strategia per ricordare un evento, una sensazione, un luogo; oppure anche per toglierlo di mezzo. E, a volte, non trovarlo più.

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