Si attendevano giorni di caldo crescente, e invece la Biennale Teatro s'è inaugurata sotto un breve acquazzone. Del resto, in teatro niente è come ci si aspetta – e per fortuna.
S'impernia su questo principio The Lingering Now di Christiane Jatahy, da cui si può imparare tanto su se stessi e sul mondo. Fra le altre cose, come riprodurre il rumore della pioggia battendosi le dita sul polso, attori e pubblico insieme: uno dei tanti modi con cui la regista rinnova quella congiunzione temporanea fra innumerevoli singolarità che sta alla base dell'esperienza teatrale.
Così, alla fine di uno spettacolo che ha sfondato più d'un confine, quando fuori scintillava un cielo incredibile, sereno, altrettanto inatteso, viene facile sperare: che non tutto è perduto, perché tramite il contatto con l'altro è ancora possibile, forse, costruire un futuro diverso. In teatro e non solo.
Roberta Ferraresi
Sul palcoscenico del Teatro alle Tese è posto un grande schermo dove, mentre lo spettatore entra in sala, vengono proiettati dei video. Quando tutti hanno preso posto, Christiane Jatahy presenta il suo spettacolo, O agora que demora, dicendo che quello che vedremo sarà un’Odissea declinata in storie di migranti e profughi.
The “real life Odyssey” è una storia di confini geografici, tra presente e passato, tra cinema e teatro, nelle varie parti del mondo: Libano, Palestina, Libia, Siria, Sudafrica, Congo, Grecia, Amazzonia, Brasile. Il fine è indagare ciò che è incerto attraverso la vicenda di Ulisse, colui che per eccellenza ha sfidato il limitare della terra nel suo “folle volo”.
Il film inizia, i racconti si susseguono in un parallelismo con le parole di Omero e si mescolano a quelle di Omar (Ulisse) e Yara (Circe), in una continua dicotomia che attira il pubblico in una ragnatela di verità e finzioni. Dopo un po’ non si distingue più il poema epico dalla realtà della narrazione e ci si abitua a seguire il linguaggio cinematografico che non prevede attori in scena. Lo schermo di fronte alla platea guarda il pubblico che a sua volta gli rivolge la sua attenzione ma, lentamente, qualcosa accade nel qui e ora del teatro. La sensazione è quella di risvegliarsi da un torpore, pian piano qualcuno si alza, parla al video, suona e canta. Dopo un primo momento di stupore capiamo che i performer sono tra di noi, e siamo tutti chiamati a partecipare a questa storia: la platea è diventata un palcoscenico mentre sul palco continua la narrazione cinematografica.
Siamo immediatamente i compagni di Ulisse che, dopo un anno, da porci sono stati ritrasformati in esseri umani e stanno per lasciare l’isola della maga Circe; balliamo come in una discoteca, balliamo con gli attori, con il video, in un rito muto di felicità e destino in cui inevitabilmente la scena successiva ci trascinerà agli inferi. Ormai siamo tutti coinvolti e scendiamo nell’Ade dove incontriamo Tiresia, l’indovino, che preannuncia sventure future; e subito dopo un nuovo Ulisse-Yara, e poi ancora Telemaco-Christiane Jatahy. L’Ade è la prigione dove Yara è stata rinchiusa per sette mesi dopo il suo arresto il 25 maggio 2015, così come la scomparsa del padre della Jatahy; e anche il bisogno di raccontare la propria storia ancora e ancora; è l’esilio dei brasiliani dal Brasile stesso che è un’“Itaca distrutta dall’avidità”. Ogni personaggio appartiene a Omero e allo stesso tempo alla nostra realtà: è un coro di storie che si intrecciano tra le vite dei protagonisti mentre l’Odissea che diventa simbolo archetipico e ancestrale.
Il racconto del trauma viene portato in scena, non come un insieme di studi antropologici ma come verità di chi è lì presente, direttamente coinvolto, come la stessa regista. La scelta di parlare anche del Brasile, della sua terra, di sé stessa e non di un’altra realtà porta lo spettacolo su di un piano di testimonianza diretta; così il dubbio tra realtà e finzione si dipana, non siamo più interessati a capire se ciò che vediamo e sentiamo sia vero o no e d’altronde, se anche non lo fosse, avrebbe importanza?
Nelle infinite declinazioni dei temi di O agora que demora il percorso del dolore pone l’accento sulla memoria volubile mentre il corpo diventa traccia fisica di una tragedia vissuta. L’unica soluzione, quindi, è raccontarsi, in una catarsi del dire ad alta voce ciò che è successo per liberarsi dall’evento tragico, altrimenti non c’è speranza e non si può andare avanti dopo tutto ciò che si è perso. Così ci riconosciamo in questa storia: “siamo noi Ulisse” alcuni nel presente e altri nel passato.
Per venire incontro a un bisogno emozionale, condiviso da performer e spettatori, lo spettacolo si conclude con lacrime di pioggia sull’immagine di un fiume. Una canzone antica e popolare dà il ritmo fino a diventare un ticchettio gocciolante: suono creato dalle mani del pubblico che si trasforma, nel buio della sala, in uno scrosciare di applausi.
Un palco senza attori: comincia così il primo spettacolo della Biennale Teatro di quest’anno. Per il pubblico, all’inizio, è come sedersi al cinema. Nei sette metri che separano la prima fila di spettatori da un grande schermo già acceso di sequenze e di suoni, nasce simbolicamente O agora que demora (2019), il lavoro della regista brasiliana Christiane Jatahy. Il titolo letteralmente racconta di un adesso che persiste, che rimane (in inglese diventa The Lingering Now): è un presente che accade altrove e a cui, a teatro, qui e ora vengono dati spazio e durata. Forse, anche un presente che trova dimora, che trova casa. L’Odissea da cui questo lavoro prende le mosse, infatti, non è solo una storia di partenze, di lontananze e di ritorni, ma è anche profondamente legata alla questione della casa come spazio perduto, rimpianto, depredato e riconquistato. Lo racconta bene, nel catalogo della Biennale, Thomas Walgrave, collaboratore artistico, responsabile di scene e luci. È lui, insieme a Jatahy, a controllare la sincronia dei tempi e a far combaciare, in questo spazio condiviso, i diversi adesso del cinema e del teatro.
Dal palco, all’inizio e alla fine dello spettacolo, interviene la regista; racconta, tra le altre cose, che assisteremo a un lavoro sui confini: quelli geografici, quelli tra teatro e cinema, quelli tra passato e presente. Dopo i primi minuti di sequenze cinematografiche, gli attori sparsi tra il pubblico smettono di fingersi spettatori e si prendono lo spazio del teatro. Quei sette metri tra platea e schermo, allora, diventano anche il luogo in cui le parole migrano e le lingue si scambiano: inglese e francese, arabo e portoghese si rimbalzano; le battute recitate dagli attori in platea vanno incontro ai sottotitoli scritti sullo schermo; le canzoni intonate in sala si alternano a monologhi registrati tempo fa e ora proiettati.
Il titolo dello spettacolo di Jatahy allude inevitabilmente al tempo e al suo durare. Portare uno schermo all’interno del copione teatrale significa, del resto, scommettere sulla sincronia, sull’incastro dei tempi della recitazione, rispondere nel presente inserendosi in qualcosa che è già avvenuto. Sta tutto, forse, nella parola «riprendere», che vuol dire «tornare a qualcosa di precedente» ma anche «filmare». Lo sa bene un altro protagonista di questa Biennale, nonché maestro della combinazione di cinema e teatro, il regista svizzero Milo Rau. Oltre a quattro film, a Venezia ci sarà anche il suo spettacolo La Reprise. Histoire(s) du théâtre: qui “ripresa” è soprattutto un omaggio a un saggio di Kierkegaard sul ricordo come ritorno al passato; inevitabilmente, però, il successivo riferimento alle histoire(s) di Godard allarga la possibile allusione anche alla prise de vue cinematografica.
Sull’immagine video lavora anche il Big Art Group, compagnia newyorchese che a Venezia porta, per la prima volta in Europa, Broke House. A partire da Čechov e dalle famiglie della miglior tradizione russa – quelle in cui le parti sembrano perfettamente assegnate –, lo spettacolo racconta la storia di un’implosione: quella dei ruoli precostituiti di fronte all’urgenza della storia, delle disuguaglianze e delle lotte (senza troppi dubbi, un’eco agli Stati Uniti del presente). Le note di regia di Caden Manson, fondatore della storica compagnia insieme a Jenna Nelson, parlano di un «set scheletrico intessuto di telecamere», per una storia che si svolge in un «tempo marginale», «come in un loop di un videogioco».
C’è una curiosa sovrapposizione, anche semantica, tra questi tre lavori in cui il teatro e l’immagine video funzionano insieme: loop, demorare, reprise sembrano tutti modi di lasciarsi alle spalle la linearità (anche quella del teatro tradizionale), per insistere sulla molteplicità dei punti di vista.
Il titolo originale di Chi protegge il testimone (1987), diretto da Ridley Scott, è Someone to Watch Over Me e, come spesso accade, contiene una sfumatura di significato andata persa nella traduzione italiana. La presa di parola da parte della protagonista femminile, la miliardaria Claire Gregory, sotto protezione per aver assistito all’omicidio di un amico, inizia già a partire dalla locandina: la prerogativa del suo status di spettatrice parlante è contenuta in quel “Me”; così come in “Watch Over” sono espressi il pericolo in cui si trova e la necessità di salvaguardare la sua incolumità e la sua funzione.
Il misto di potenza e fragilità incarnato da questo personaggio è lo stesso che parte del teatro attuale riconosce agli interpreti, spesso non professionisti, chiamati sul palcoscenico in qualità di testimoni di violenze subite nei rispettivi Paesi di provenienza. Come veicolo e protezione di queste narrazioni vengono costruiti appositi dispositivi teatrali e cinematografici capaci di inserirle in un più ampio orizzonte di senso, sia esso la narrazione di un mito, il remake di un film o l’istituzione di un tribunale.
Christiane Jatahy, in The Lingering Now, adatta l’Odissea di Omero alle storie di diversi esuli contemporanei, perseguitati dal proprio governo, cacciati o imprigionati ingiustamente. Le loro figure, registrate in video o fisicamente presenti in sala, sono innestate in una struttura poetica e intendono al tempo stesso suggerire un senso di verità, tra testimonianze autentiche e vuoti di memoria simulati. Scrive Jatahy nelle note di regia: «Siamo andati in specifici luoghi del mondo per filmare persone che vivono la propria odissea, non per produrre un documentario, ma piuttosto per offrire loro una finzione attraverso la quale raccontare ciò che stanno vivendo».
Questa “fame di realtà” espressa in contesto estetico e comunemente identificata con l’etichetta Reality Trend investe anche il lavoro di Milo Rau, presente all’interno della rassegna veneziana con La Reprise. Histoire(s) du théâtre e una retrospettiva cinematografica. Nella sezione principale di uno dei film in programma, The Congo Tribunal (2017), il regista svizzero istruisce per tre giorni un processo in cui un giudice, accompagnato da una giuria e da numerosi testimoni, ha il compito di pronunciarsi a proposito di tre atti di violenza perpetrati nella regione congolese del Sud Kivu. Ovviamente l’operazione non possiede alcuna validità giuridica, ma fornisce un mezzo di espressione a un’umanità soffocata da perenni ingiustizie e soprusi, costretta a cedere porzioni sempre più ampie di spazi vitali e sovranità. «La scena – scrive Rau in Realismo globale – allora, si fa evento per qualunque cosa vi avvenga, perché ogni persona che vi entra diventa un personaggio, per così dire, fatto uomo, e afferma: “Ciò che faccio qui non è un semplice movimento, è un gesto. È Storia”».
Entrambi gli artisti avvertono la necessità di rendere conto di una violenza a loro estranea attraverso la supposta nudità del testimone: non si avvalgono del potere simbolico della parola e della scena, ma si sforzano di ottenere un grado zero della rappresentazione, certo inevitabilmente “inquinato” dalla retorica, dalla percezione, dalla memoria, talvolt a anche dalla malizia del testimone. Non intendono universalizzare una tragedia personale, ma, al contrario, sviscerarla. Al di là del raggiungimento di un certo grado di empatia o di consapevolezza da parte del pubblico, il compito che si prefissano è quello di aiutare a ricostruire una soggettività violentata. «Oggi, per la prima volta dopo tanto tempo, su questo palco posso dire: “Io sono Ulisse”», afferma l’attrice di origine siriana Yara Ktaish al termine di The Lingering Now. La finzione diventa un mezzo per costruire un nuovo riconoscimento, personale e collettivo; e la rappresentazione fa indovinare un proprio significato laterale: non tanto presentare di nuovo, quanto presentare se stessi.