Oggi è l’ultimo giorno di Festival, ci avviciniamo agli incontri finali e, soprattutto, alla festa di chiusura. Poi sarà il tempo dei saluti e della malinconia, ma non è ancora il momento. Il Rot ha tinto questa Biennale Teatro nel segno della violenza e della sua rappresentazione. Così Milo Rau ha raccontato, con una perfetta partitura drammaturgica, la brutalità dell’assassinio di Ihsane Jarfi, a Liegi nel 2012, perché omosessuale. E Peeping Tom ha travolto un pubblico entusiasta con un’inquietante onirica danza, dai toni macabri e surreali. Ma oggi è anche scomparso uno dei più grandi maestri del teatro del Novecento: Peter Brook. E vogliamo rendergli omaggio.
Andrea Malosio
Si ha una strana sensazione di angoscia mista a serenità quando si esce da Triptych di Peeping Tom. Tre performance compongono un trittico creato dai registi e fondatori della compagnia, Gabriela Carrizo e Franck Chartier: The Missing Door, The Lost Room, The Hidden Floor. Tre stanze, tre ambienti claustrofobici infestati da presenze, ospitano i movimenti sublimi e scomposti dei superlativi interpreti: Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Roger Van der Poel, Wan-Lun Yu.
Quando si entra in sala, sembra di essere catapultati su un set cinematografico di David Lynch. Nel primo quadro, The Missing Door, dominano colori freddi: un pavimento sui toni di un azzurro gelido, muri grigi su cui si aprono cinque porte, tre sulla parete di fondo della scenografia e due sul lato destro. È un corridoio pieno di stanze d’albergo, o meglio di cabine di una nave da crociera. C’è una donna sdraiata per terra. Un uomo è seduto riverso su una sedia di fronte a un tavolino. Sembra morto. Entra un altro individuo, forse un cameriere, che trascina il corpo femminile fuori dalla scena e inizia a pulire con uno straccio il pavimento, su cui si scorge una macchia di sangue. Le porte si aprono e si chiudono senza apparente motivo e così, con un po’ di suggestione spiritica, si uniscono alla danza. Poco dopo, una domestica in divisa, al lato dello spazio scenico, sbircia l’azione: è figurazione di una voyeur. E non per nulla la traduzione dell’espressione idiomatica inglese peeping tom è proprio “guardone”. Le porte sono spalancate dal vento, entrano corpi e volano pagine di giornali. Forze soprannaturali si impossessano della scena, facendo muovere oggetti inanimati: tutto si muove a scatti, come in un videogioco di qualche tempo fa. Risuona una risata malefica, donne e uomini – e anche una parete – crollano a terra, esanimi.
Il cambio scena per passare all’affresco successivo diventa parte integrante dello spettacolo. La scenografia è smontata, sul palco entrano le maestranze, ma la performance non si ferma. Si partecipa allo smantellamento delle pareti e all’assemblaggio della seconda stanza, mentre un corpo giace inane per terra e qualcuno persiste con l’ossessione per la pulizia. È intrigante assistere alla decostruzione dello spazio scenico nel mezzo dell’azione, perché, pur senza troppi ammiccamenti alle teorie meta-teatrali, ci troviamo in un momento di apparente pausa. Ma non è una fase di stasi, è una transizione: sono movimenti che determinano un cambiamento.
Anche The Lost Room prende vita in un ambiente chiuso e sigillato. Questa volta il pavimento si tinge di rosso. L’impressione è di essersi ora spostati all’interno di una spaziosa cabina della nave. La coreografia fa da controcanto al primo frammento, citando e rispondendo alle dinamiche del quadro precedente. Così c’è ancora il vento, porte che si aprono e chiudono. E poi soglie che diventano armadi, un letto con presenze fantasmatiche, teste mozzate; corpi sparsi per il palco immobili in posizioni scomposte come se fosse il luogo di una strage, corpi che compaiono improvvisamente e altrettanto velocemente scompaiono. L’estrema bravura tecnica dei performer riesce a ingannare lo spettatore in continuazione, in un gioco ironico che suscita più di un sorriso. Così, di fronte alla scena di una sorta di suicidio collettivo, in cui tutto il gruppo di danzatori si butta giù da un balcone, si rimane ammaliati dalla velocità dei movimenti e dall’immediata sparizione dei corpi, che apparentemente dovrebbero accatastarsi dietro alla scenografia e invece sprofondano negli abissi. Illusione e acrobazia ammiccano quasi al virtuosismo, per costruire però una traccia drammaturgica di inquietudine. La parte finale del trittico, The Hidden Floor, è ambientata nella sala di un ristorante della nave. Acqua si sparge sul pavimento da taniche che gocciolano dal soffitto e da rivoli che zampillano dalle pareti. Il modellino telecomandato di un transatlantico naviga sul palco. È l’apice della spettacolarità: fumo e nebbia, fuoco, movimenti nell’acqua, forti suoni metallici che stridono. Il pathos è all’estremo. Corpi nudi si muovono in un’infernale danza acquatica, creature non umane si scontrano, si muovono violenza e poi si amano. Si è trasportati dalle immagini, da un’estetica perfetta che rapisce e forse per questo rassicura. Peeping Tom dipinge così un trittico di inquietudine e violenza, di ironia e sentimento, in un contrasto visivo ed emotivo che appaga e fa godere della perfezione di corpi e movimenti, trascinati in fondo senza troppi pensieri.
Nel bagagliaio di un’automobile un corpo insanguinato, picchiato, ha ancora voce per pregare. I fari accesi illuminano faticosamente un palco senza quinte che lascia spazio, ai margini, per i testimoni. Una telecamera riprende tutto ciò che avviene in scena, sdoppiandolo: l’auto è lontana, vista nella prospettiva della platea; ma il bagagliaio è vicino, inquadrato con gli occhi di chi l’ha appena chiuso, di chi ha appena colpito un uomo a sangue. In scena nei teatri europei dal 2018, La Reprise. Histoire(s) du théâtre del regista svizzero Milo Rau racconta l’uccisione del giovane Ishane Jarfi, nella Liegi del 2012, dove essere omosessuale può ancora portare alla morte.
A partire da un caso di cronaca nasce una tragedia contemporanea, divisa per atti. La messinscena – che coinvolge attori professionisti e non (rispettivamente, Sara De Bosschere, Sébastien Foucault e Johan Leysen; Tom Adjibi, Suzy Cocco e Fabian Leenders) – sovrappone il racconto di quanto accaduto alla rivelazione del meccanismo teatrale. Così, alla trama si affiancano il lavoro di ricerca svolto, i provini re-inscenati, gli attori che provano a riproporre quel momento inafferrabile in cui sono diventati personaggi.
Non è il solo racconto di un fatto avvenuto: come suggerisce il titolo del quarto atto – Anatomia del crimine – quel fatto è scomposto tra origini e conseguenze, vittime e carnefici, per poi essere ricostruito in tutto il suo svolgersi nel tempo: senza ellissi, senza sconti al tempo della morte. Viene da pensare ad Anatomia di un istante (2009), dello scrittore Javier Cercas, dove finzione narrativa e indagine storica si mescolavano per raccontare il colpo di stato tentato in Spagna il 23 febbraio 1981. Gli altri riferimenti sono più scoperti: da Kierkegaard e Godard, omaggiati rispettivamente tra titolo e sottotitolo, a Susan Sontag e Hannah Arendt. Rievocati nel copione, fanno parte anche loro dei morti cui il teatro dà voce tramite i vivi. Anche Ihsane sulla scena è quasi sempre solo corpo rievocato: corpo picchiato, offeso, nudo, senza vita. Sono quelli che restano a raccontarci di lui: i suoi genitori, il suo ex compagno, uno degli assassini. Sempre presenti in scena – anche quando, nel buio e nel silenzio, assistono alla morte – sono loro a dirci «cosa significa perdere una persona, cos’è una vita che scompare».
Baciare, picchiare, essere picchiati, spogliarsi: tutto ciò che viene chiesto agli attori non professionisti durante i provini tornerà, in un meccanismo drammaturgico perfetto che sembra non dimenticare niente. Anche i suoni che Fabian – mulettista nella vita – dimostra di saper riprodurre tramite un sampler durante i casting sono solo apparentemente casuali. Ricompariranno tutti, però: le voci della città, nel viaggio in auto verso la morte; l’onnipresente pioggia, nel buio dell’omicidio; il canto degli uccelli, quando il corpo di Ihsane viene ritrovato; ma anche gli applausi: i nostri, alla fine, sempre che la fine sia davvero arrivata. Poggia tutta sui versi di Wisława Szymborska in Impressioni teatrali l’intuizione di Rau di sconfinare in un sesto atto, quello in cui gli attori tornano ad «allinearsi tra i vivi» e siamo di nuovo, tutti insieme, sopravvissuti e testimoni.
Non è “solo” teatro sociale, alla maniera del tanto rievocato cinema sociale dei fratelli Dardenne: non è solo l’analisi della deriva post-industriale di Liegi, tra disoccupazione dilagante, razzismo e omofobia; né la sola denuncia delle dinamiche di classe che legano a doppio filo tutti i personaggi, dagli imputati ai vertici della corte. Se – come detto sul palco – la morte di Jarfi divenne un fatto pubblico a partire dal ritrovamento del suo corpo, possiamo immaginare che avrebbe cessato di essere tale dopo la sentenza del 2014, o comunque dopo la sua discussione sulla stampa. È qui che interviene il teatro: ripete una morte, le dà parola e la tiene viva; mantiene il crimine come un fatto pubblico, non dimentica il contesto sociale in cui questo si è riprodotto e infine si fa carico di tutta quell’umanità – del suo dolore e della sua violenza – che non ha spazio tra la freddezza di un tribunale vero e il cinismo dei media.
Se ne è andato il maestro dei maestri. Peter Brook ci ha lasciato.
La notizia arriva a Venezia velocemente, e subito si è sparsa tra quanti stanno dando vita alla Biennale Teatro 2022. Di questo garbato gigante del palcoscenico si potrebbe parlare per ore, per giorni e settimane addirittura, tale e tanta è stata la sua opera.
Tornano in mente i capolavori che ha realizzato – Mahabharata, Tempesta, Amleto, Carmen: quanti? come citarne solo alcuni anziché altri?
In ogni lavoro – anche nel più “piccolo”, anche nel meno riuscito – c’è arte, bellezza, poesia. Gli attori, le attrici, i e le dramaturg che con lui hanno collaborato: tutto quel mondo che ha gravitato attorno al Maestro è fonte di insegnamento e di testimonianza.
A partire dal suggestivo spazio delle Bouffes du Nord, a Parigi, l’opera di Peter Brook ha viaggiato in tutto il mondo. Alla Biennale, fece il suo primo, trionfale ingresso nel 1957 con Titus Andronicus, interpretato da Laurence Olivier e Vivien Leigh. Poi tornò nel 1972 con A Midsummer Night Dream, alla Biennale diretta da Luca Ronconi nel 1976 con Les Iks, e ancora nel 2002, con La tragédie d’Hamlet, e per una intervista con Franco Quadri. Ma Brook sarà anche alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica: ad esempio nel 1989, con la versione filmica del Mahabharata o nel 2012, protagonista di un documentario realizzato dal figlio Simon.
Oggi le pagine dei giornali e dei social danno spazio a questo indiscusso maestro. Ci sarà tempo e modo per riflettere ancora sulle sue creazioni, sulla sua visione di teatro e di mondo, sul suo lavoro sempre dedicato all’Essere Umano. Ma a me piace evocare un aneddoto tratto da un suo libro, l’autobiografia intitolata I fili del tempo, edita da Feltrinelli.
È l’incontro con un uomo considerato Santo, il derviscio Nero ovvero Tour Malang, che presenta come un giovane dalla barba lunga e lo sguardo selvaggio. Provo a riassumere l’episodio. Racconta Brook: «Mi chinai verso il derviscio: “nella mia casa – detto con risonanza simbolica particolare – vi sono molte stanze, piene di un’accozzaglia di oggetti inutili… Di tanto in tanto mi sembra di sentire suoni. Non so da dove vengano né di cosa si tratti”. Il derviscio era evidentemente interessato e mi interruppe: “Che specie di suoni? Potrebbero venire dalle tubature? Ha chiamato un idraulico?». Rimasi sorpreso, dice Brook: ero convinto mi prendesse in giro ma, più continuava a parlare, più mi rendevo conto che era un uomo pratico, abituato a dare consigli pratici.
Mi piace pensare che Peter Brook, uno dei più grandi artisti del secolo scorso e di questo tempo, sia stato anche un uomo pratico, un uomo di teatro, qualcuno che ha saputo sempre accostare alla sua ricerca spirituale un piano concreto, reale: quello del teatro fatto assieme, di un teatro scelto perché – come diceva – si «ama la vita» e non perché «si fugge dalla vita».
Legato al magistero di Gurdjeff, il regista si è certamente preparato al grande passo, a lasciare questo mondo con serenità e con amore. Ma resterà in quanti vivono e fanno vivere il teatro.