Carnevale del Teatro
Mi vado chiedendo da qualche tempo quale senso può avere oggi il nostro mestiere, il nostro fare teatro voglio dire, in una società dove il contatto umano sembra rarefarsi, e dove l'artigianato lotta per non soccombere; quali sono i limiti, quali i valori, quali le speranze che questo mestiere si porta appresso. È vero che il pubblico, e spesso pubblico nuovo, va riscoprendo il teatro, ma non necessariamente questo significa vitalità creativa di questa forma di spettacolo; può voler dire per esempio curiosità per un accampamento di pellirossa che si ostina a comunicare con la bocca e con le mani quello che si trasmette con ben altra velocità divulgativa attraverso altri mezzi di comunicazione; o può voler dire invece bisogno autentico di rapporti non mediati dalla tecnica, scoperta dell'intelligenza, della fantasia, della fatica dell’uomo. In altre parole, e in ogni caso va cambiando il pubblico (perché la storia cambia), e il teatro sembra invece restare lì (perché le sue storie non cambiano) con i suoi ambigui affascinanti giochi magici, con l'illusione grande, che è comunque la sua forza, di essere specchio dei tempi anche quando i tempi non si specchiano più in lui.
La immutabilità del teatro (non del suo rappresentarsi naturalmente) può diventare tuttavia quasi una piccola rivoluzione copernicana, perché con sicura lentezza cambiano soggetti e oggetti, cause ed effetti.
Il pubblico diventa (anche inconsapevolmente) attore, si impossessa del teatro, ne fa oggetto di riflessione, studio, ricerca, sogno, ironia, rimpianto; e può anche restituirlo alla storia con nuove ragioni per esistere e, forse, per cambiare.
Provocare, anche in un tempo breve e in uno spazio limitato, uno scambio di ruoli e una confusione di linguaggi, interrogare chi fa il teatro e chi lo frequenta sulle nostre sorti future di clown, mi sembrava urgente, e forse necessario.
Il Carnevale del Teatro è nato così.
Il pubblico, gli attori e, perché no, il caso hanno fatto il resto, testimoniato anche dalle immagini di questo libro.
Ma non c'è caso che tenga se nel nostro lavoro non credi e non speri nel pubblico e negli attori. Assieme a loro abbiamo buttato in piazza, senza segnalarli con voti di qualità, tutti gli ingredienti che nei secoli hanno fatto teatro e hanno fatto carnevale: il trucco, il travestimento, la maschera, il gesto, la musica, la parola.
Ci ha certo aiutato la consapevolezza di vivere in un tempo che non è di festa, il che semmai è stata una ragione in più per interrogarci sulla utilità anche politica del lavoro teatrale oggi. Il periodo del Carnevale era stato del resto scelto anche perché interruzione delle istituzioni, rottura delle regole, pausa possibile e libera di riflessione e di ricerca. Venezia era già pronta a darci una mano, come se aspettasse solo l'occasione; e del resto la stessa amministrazione comunale da almeno due anni stimolava i veneziani a riappropriarsi di una tradizione popolare nascosta ma mai dimenticata; così l’uso teatrale del carnevale ha trovato la sorpresa ma aperta disponibilità dei veneziani e dei «foresti», e l’incontro con i «comici» è stato pieno, gioioso, spesso emozionante per riscoperte reciproche. Abbiamo aperto per una settimana, giorno e notte, tutti i teatri grandi e piccoli di Venezia, perché il Carnevale potesse passare senza soluzione di continuità dalla piazza all’edificio teatrale, al campiello, all'acqua dei canali. E in più abbiamo aperto anche un nuovo piccolo spazio teatrale sull’acqua, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, che riecheggia non soltanto le costruzioni galleggianti dello Scamozzi e del Rusconi, ma anche la purezza delle linee del Globe. Ricordo qui l'utilizzazione di quel teatro, anche se marginale rispetto a quanto avveniva contemporaneamente nelle piazze e nei teatri, per sottolinearne la sua singolare bivalenza, la sua vita interna ed esterna, la sua possibilità di essere usato e vissuto sia come contenitore di spettacoli sia come attore egli stesso. Questo, ed altro ancora, molto di più di quanto parole e immagini non possano dire, è accaduto per caso a Venezia, nel 1980.
ln fondo abbiamo unito tre parole usate, e usate al limite del luogo comune, come Carnevale, Teatro, Venezia, perché collegate assieme potessero assumere un valore originale, un senso e un significato diversi, indicazione di una esperienza irripetibile altrove, ma anche a Venezia legata a tempi precisi di ricerca e di studio, paralleli alla festa, ma certamente da essa distaccati e autonomi.
Maurizio Scaparro