L’intellettuale inglese John Ruskin scopre della pittura di Turner quello che “l’agrimensore del visibile” scopre della pittura di Apelle, secondo la Conoscenza accidentale di Didi-Huberman: ossia il mondo chiaroscurale.
Il passaggio dallo sguardo di chi veglia allo sguardo di chi si sta per addormentare è altresì il passaggio che dalla totalità massiccia e nitida, inguardabile, conduce verso un mondo non ancora del tutto emerso, in cui alla chiusura logica si sostituisce l’assai più feconda apertura ontologica. Questa zona d’ombra, in cui gli esseri anadiomeni non si lasciano del tutto acciuffare, in cui il fianco di Afrodite è ora la sponda ora la schiuma del mare, è il mondo dipinto o il mondo dell’infas, l’alieno che visse prima di parlare.
Ruskin, che invitava i suoi allievi alla verginità degli occhi e a una solitudine pastorale, amò particolarmente due cose nella sua vita: Venezia e i dipinti di Turner, l’una perché è figura-che-emerge per eccellenza, l’altro perché la seppe raffigurare. Ancora nella placenta della nebbia, ancora gocciolante, questa città è la soglia incandescente, è la creatura opalina tra niger et albus, tra il sonno e la veglia, del mondo chiaroscurale.
Giulia Pellin Mattiocco
Tutto cade, di venerdì sera in Sala d’Armi della Biennale, anche se siamo a teatro e si tratta solo di metafore. Cade la polvere, cade la pioggia, cadono corpi e parole pesanti, ma soprattutto cade la cenere, che ricopre tutto, lasciando solo un leggero silenzio di sottofondo.
Nello spazio vuoto della scena c’è una casa, evocata tramite un sapiente taglio di luci, un padre preoccupato (Giampiero Judica) e una madre malinconica (Sylvia De Fanti) con un figlio adolescente, quindi assente, che non si vede mai ma ogni tanto si sente da un presunto piano di sopra. Il padre beve una tazzina di caffè prima di uscire, la madre rimane girata di schiena a preparare la colazione. Il figlio non c’è.
Ad aprire lo spettacolo scritto da Stefano Fortin e diretto da Giorgina Pi è, in realtà, l’attore Valentino Mannias che, con voce piatta dentro un silenzio echeggiante, esorta i presenti a immaginare l’apocalisse.
Tutto cade, ma soprattutto quella cenere che non si sa da dove provenga. Forse da una guerra non abbastanza lontana, forse dall’eruzione di un vulcano in Islanda la cui notizia passa in sordina. Mentre ogni attore rappresenta un personaggio, Mannias dà voce al drammaturgo Fortin, intervenendo come un narratore onnisciente e piuttosto cinico, per raccontare come stanno i fatti nella vita vera fuori da questa farsa del venerdì sera, ammesso che non lo sia anch’essa.
La cenere copre tutto e rischia di coprire anche noi. Ché forse già è successo e non ce ne siamo accorti, ché è talmente sottile da trasformarsi in una esile patina opaca che rende difficile distinguere la realtà dalla finzione.
Il testo è ricco di rimandi: si citano Müller, Pasolini, Heidegger, Marx, una ricerca che va oltre la stesura della drammaturgia. Sembra l’esigenza di esprimere i propri riferimenti, evocando chi, in passato, usò quelle idee per scrivere e affrontare tempi difficili.
Il “meta-personaggio” di Valentino Mannias è interessante proprio per la fredda indifferenza con cui il drammaturgo tratta argomenti delicati e al contempo sgradevoli, che cuciono insieme, come pezzi di pelle separati da ferite, le tre scene dello spettacolo.
Prima, un monologo sull’apocalisse e la cenere che, in controluce, racconta il rapporto precario di una coppia incapace di riallacciare i rapporti con il proprio figlio. Poi, un monologo sarcastico sulla Capitale, a cui segue la seconda scena che riporta il dialogo tra tre poliziotti affaccendati intorno a un caso di suicidio, che si scopre essere quello del figlio della coppia.
Roma, “che senza il titolo di Capitale potrebbe essere Venezia”, fossilizzata nel suo passato elegante e incapace di proiettarsi verso il futuro, diventa il mezzo per denunciare la crisi culturale che imperversa nel nostro Paese.
Fortin, tramite il suo personaggio, continua imperterrito ad abbattere idoli e divellere gli spettatori dalla comodità delle loro poltroncine. Riprende ironicamente i critici cinici ma, con cinismo, critica espedienti retorici che lui stesso perpetra nello spettacolo: viene additato l’uso della egotistica prima persona, mentre per tutto il tempo l’attore principale fa satira di sé e sul pubblico.
In un crescendo di tensione, si amplifica un fastidioso tremolio in sottofondo, un telefono in scena squilla insistentemente, scrollandoci dal torpore e dalla cenere.
I dialoghi riprendono la tensione della musica o viceversa, fino a quando, finalmente, i monologhi postmoderni s’allacciano alla narrazione dello spettacolo, spiegandoci che tutto risale a una notizia apparsa sul Messaggero Veneto: il figlio si chiamava Michele e aveva trent’anni quando si è ucciso. L’assenza del protagonista della storia diventa così una presenza disagevole che viene colmata dallo stesso attore, trentenne come Michele, che sente tutto il peso di questo mondo. L’ultimo quadro, l’ultimo monologo, è la sintesi di un disagio generazionale, lo sfogo di un post-adolescente fatto a una platea di adulti che esprime un senso di impotenza di fronte alla precarietà del lavoro, del futuro, tentando, forse, di scavare nel senso di colpa.
Lo spettacolo finisce. Gli attori, il drammaturgo, la regista si lasciano cadere insieme alla cenere, e tutto ciò che hanno da offrire è la descrizione della visuale da laggiù, che non ha nulla di rincuorante.
Il lituano, questa lingua bellissima, da noi lontana e forse anche per questo affascinante, invase i palcoscenici italiani a metà degli anni Novanta del secolo scorso. Fu, almeno per me, una deflagrazione potente, una sorpresa inquietante e affascinante: era il teatro di Eimuntas Nekrošius con la sua compagnia Meno Fortas.
Nel nostro Paese, arrivò grazie al Teatro Festival di Parma diretto da Giorgio Gennari già nel 1989, con il lavoro che gli diede notorietà internazionale, Pirosmani Pirosmani. E possiamo dire che l’Italia adottò pressoché subito Nekrošius – contrariamente a quanto accadde, che so, in Francia, dove il regista era apprezzato ma non venerato. Da allora, infatti, numerose furono le presenze sui palcoscenici nostrani: come per Tre sorelle e Zio Vanja, in cui quella lingua, potente e rituale, vibrava anche attraverso Čechov. Poi, fu il tempo dei meravigliosi Shakespeare: Hamletas, Makbetas e Otelas, quest’ultimo pensato proprio alla Biennale Teatro, dove il maestro tenne un seguitissimo workshop. Amato anche come regista lirico, Nekrošius seppe imporre il suo lituano come lingua della scena, e fece della piccola Vilnius una capitale del teatro europeo. Lui, schivo e silenzioso – chi ha provato a intervistarlo ricorda certamente la sua reticenza ad andare oltre a risposte monosillabiche – usava il lituano come un grumo di sonorità ataviche, materiche, così come era concretissimo l’uso di materie prime dominanti: il ghiaccio per Amleto, il legno per Macbeth, l’acqua per Otello, assieme a terra, tabacco, rami, oggetti casalinghi, pellicce, rendevano ogni spettacolo un rito unico, sconvolgente. Il Maestro se ne è andato troppo presto, poco più che sessantenne, ma la sua lezione è stata appresa e rilanciata anche da registe e registi italiani. Potremmo trovare qualche lascito, nell’intuizione scenica, nell’uso della musica, in certa gestualità, anche nell’opera di Ciro Gallorano, presentata a questo Festival veneziano.
E naturalmente il magistero di Nekrošius è stato fondamentale per gli artisti lituani, come Oskaras Koršunovas (classe 1969), regista che ha mosso i suoi primi passi creativi sul finire degli anni Novanta e che spesso ha lavorato in Italia – Biennale compresa, nel 1999 e poi varie volte negli anni Dieci. Con lui, il lituano feroce di Nekrošius si arricchisce di sonorità più ironiche, a tratti ciniche: segno di un tempo che stava per cambiare in tutta Europa.
E qualche sera fa, quando ci siamo trovati davanti alle dieci pseudo-cassiere dirette in scena da Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė – fino a domani ancora alla Biennale Teatro per un laboratorio –, abbiamo capito che quel cambiamento è avvenuto. Abbiamo colto l’ennesimo passaggio emblematico nel lituano teatrale: con le tre artiste, la lingua si declina in una dinamica supercontemporanea, quotidiana, minimale; rifrange sofferenze economico-sociali, frustrazioni professionali, disagi esistenziali. Nel coro tutto al femminile, intercalato dal rumore dei registratori di cassa o da un pianoforte, con sonorità che evocano nenie popolari, Have a Good Day! – questo il titolo della performance – è in un lituano che, come ogni lingua europea di oggi, sembra afflitto, uniformato, umiliato dalle derive del capitalismo.
Per restare in metafora, pare quasi che nel novero di una manciata di anni, quella che era una lingua primordiale del teatro sia diventata, con i toni aggraziati di un dolcissimo coro, una denuncia aspra, uno specchio amaro e oscuro della frana socioeconomica del nostro tempo: dalla magmatica e violenta suggestione linguistica improntata da Nekrošius al lieve (ma aguzzo) canto delle cassiere. “Canteremo ancora nei tempi bui? Sì, canteremo i tempi bui”, diceva Brecht.
Non ci sono nobildonne impellicciate, ma volti perlati di sudore; non si inebria l'aria dei profumi all'ultimo grido, ma dell'agrumato spray antizanzare; non sfilano tacchi a spillo verniciati su tappeti rossi, ma sandaletti tedeschi su distese di ghiaia polverosa: è la moda alla Biennale Teatro.
Ogni mattina per arrivare alla sede in Ca' Giustinian si attraversa la via del lusso, immersi nel mondo fiabesco di Valentino, Versace, Prada, Fendi, ma la favola finisce quando le insegne mostrano i nomi dei rivali francesi, Luis Vuitton, Christian Dior, Hermès, Cartier, Chanel. È vero, oltre la metà dei prodotti di alta moda consumati nel mondo provengono da Francia e Italia, Paesi simbolo del buon gusto che vendono all’estero i propri lifestyle: una sfida che si riflette in tutti i campi, non solo quelli da calcio, la dolce vita contro la vie en rose. Dalle vetrine linde dei negozi commesse e commessi scrutano i passanti con sospetto, eleganti e distinti, senz’altro annoiati poiché nelle boutique entra un cliente ogni sei ore. Eppure loro, stoici, inamovibili, se ne stanno lì in piedi a osservare. Chissà se quando nessuno li guarda si danno al canto come le dieci cassiere di Have a Good Day! o se si lasciano andare a singhiozzi melodrammatici come gli attori di Elephants in Rooms; chissà se a volte si sentono semplici oggetti che hanno preso vita, come i tavolini e i quadri elettrici di After All Springville.
Borse, scarpe, orecchini, caftani, abiti da cocktail, sottane, reggiseni e cravatte prodotti in Paesi a bassi salari, assemblati ed etichettati, poi, nella nazione da cui dovrebbero provenire, con un made by che sostituisce il made in. Le industrie del lusso lucidano la propria immagine sostenendo il mercato dell'arte contemporanea: come moderni mecenati imbastiscono esposizioni, fondazioni e mostre, restaurano monumenti e sponsorizzano intere regioni, muovendosi con decisione verso la brandizzazione del patrimonio, dal Colosseo di Tod’s alla Basilica della Salute di Yves Saint Laurent.
Il teatro si colloca in una posizione diversa, fuori moda sempre: vorrebbe la fastosità dell’Opera, ma non la raggiunge; tenta di avvicinarsi all’eleganza del balletto, ma trova scomode le scarpine con le punte. Non gli resta che abbracciare la sua natura: attori scalzi, registi spettinati, drammaturghi incamiciati, tecnici in mezze maniche e critici scompigliati. Nella confusione, c'è chi indossa lo stesso cappello da trent’anni, chi non rinuncia a portare la giacca elegante nonostante i ventinove gradi e il 98% di umidità nell'aria, chi arriva direttamente dalla spiaggia alla poltroncina di velluto; qualcuna ha l’abito ereditato dalla nonna, qualcuno il completo del babbo; molti portano le scarpe da tennis, le spalle scoperte, borse da mare, occhiali da vista, camicie a fiori, marsupi argentati. Forse nessuno guarda di sottecchi, giudica, disapprova o contesta – ecco il motivo per cui ognuno indossa ciò che meglio crede.
D’altronde, il teatro è un mondo dai mille registri, linguaggi, codici, approdo da sempre degli emarginati che navigano acque burrascose; sulle sue scene appaiono tute da ginnastica, gambaletti, abiti in pizzo, grembiuli, passamontagna, calzamaglie, bermuda: i costumi rappresentano simboli e richiamano significati, in una vorticosa trasformazione dell’ordinario in straordinario, del quotidiano in extra-quotidiano, dell'impossibile in possibile.
Un solo elemento ha lo status di immancabile nei look di giovani e meno giovani; può stare in borsetta ma è più spesso stretto tra le mani: multicolore, impreziosito da venature d'oro, da fili di seta o pizzo, caro alleato nella guerra contro l'arsura veneziana. È Il ventaglio, la cui storia millenaria unisce egiziani, antiche civiltà cinesi, giapponesi, greci, romani e noi. Sulle sue lamelle pieghevoli sono rappresentate scene di caccia o pesca, giardini, pavoni, fiori, geometrie o pittogrammi; la sua eredità e integrità sono da salvaguardare a tutti i costi, sia mai che cadendo per strada si rompa, scatenando pettegolezzi, malintesi, sospetti, equivoci sentimentali e ambiguità, come nella commedia del – non a caso veneziano – Goldoni.