La cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla carriera 2024 è stato forse il segno, simbolico e teatrale, più potente di questa edizione della Biennale Teatro. Vedere i componenti della compagnia australiana Back to Back sollevare orgogliosi la statuetta dorata ha commosso ed emozionato coloro che erano presenti. Perché il gruppo ha portato in laguna non solo un bello spettacolo (l’urticante Food Court), ma ha anche ricordato a tutti e ciascuno quanto possa essere importante combattere e superare pregiudizi e stereotipi.
Ogni anno, quando si delinea la fine del workshop che teniamo assieme a Roberta Ferraresi, torna la domanda: ma in fondo perché fare il critico teatrale, ci diciamo guardandoci un po’ confusi e sicuramente stanchi. A dare una parziale risposta sono i partecipanti, anzi le partecipanti, dal momento che in questo 2024 sono state tutte donne: il loro entusiasmo, la loro serietà, la voglia di capire e di scrivere, la determinazione nel confrontarsi con quel che accade in scena.
A guardare indietro, poi, dopo tutti questi anni in cui abbiamo avuto il privilegio di condurre il laboratorio, ci rendiamo conto che tanti dei nuovi critici (ormai firme riconosciute) sono passati da questa Venezia-College, aprendosi a un giornalismo nuovo e antico. È un paradosso, in questi tempi di pensiero semplificato e di crisi dell’editoria. Allora, ecco che torna il messaggio di Back To Back. Fare critica significa, ora e sempre, combattere ogni censura, ogni giudizio grossolano e precipitoso, non accettare la superficialità dei cliché, portare mondi diversi a incontrarsi. Ci riusciremo? A Geelong, Australia, un gruppo straordinario di attori e attrici c’è riuscito.
Andrea Porcheddu
Dal fil rouge di questa edizione del Festival, Niger et Albus, emerge il tema del “confine”. Che significato assume questa parola nell’ambito della Biennale Teatro?
Niger et Albus, pur essendo due nuance, sono due non-colori e io non vedo confini. Vedo, invece, un’apertura totale. La mia missione, in quanto intellettuale e artista, è quella di dare una visione più ampia possibile di quello che ci circonda. I governi e le istituzioni vorrebbero tappare la bocca al poeta, a chi fa arte, perché la sua parola, pur nella semplicità, è diretta, cruda, arriva dritta al cuore. E per questo fa molta paura. Non è una parola consolatoria, non ha colori e neppure confini: è la verità di una persona e a volte è profetica. È per questo che per molti l’arte va messa a tacere.
Quale suggerimento darebbe a un giovane che si vuole occupare di drammaturgia in Italia? E che consiglio darebbe al “sé stesso del passato”?
Mi consiglierei di fare esattamente tutto quello che ho fatto, perché sono riuscito a realizzare i sogni di quando ero bambino; ma ne ho ancora tanti, comunque. Mi ritengo una persona fortunata, ho raggiunto una serenità mai avuta.
Quando uno fa solamente l’artista non pensa ad altro che a sé stesso, e si dimentica di ciò che lo circonda. Da Direttore della Biennale Teatro ho scoperto una responsabilità etica verso le giovani galassie di creatrici e creatori, di ciò che, con Deleuze, potremmo chiamare i bricoleur di idee possibili. Questo lavoro di scopritore-rabdomante di nuovi talenti, ma anche di guida, mi ha rimesso in discussione, sono tornato a fare lo speleologo di me stesso, a guardare nelle mie cavità interiori.
Non so se sono in grado di dare consigli. Da parte nostra abbiamo cercato, alla Biennale Teatro, di creare nuove opportunità. Ad esempio, prima non esisteva il bando Site-specific per la performance. Abbiamo poi alzato il limite d’età per i bandi di drammaturgia e di regia. A me sarebbe piaciuto anche pubblicarne uno ulteriore che non ne avesse, per permettere a tutti di rimettersi in gioco e lavorare con dei maestri.
Dal suo punto di vista, dove si trova ora la drammaturgia italiana? Quali sono le differenze rispetto al contesto internazionale?
Come hanno dimostrato le mise en lecture dei giorni scorsi, la drammaturgia italiana – un tempo considerata febbricitante e convalescente – oggi è in ottima forma, e io ho la certezza che in futuro ne vedremo delle belle. Per quanto ci riguarda, grazie alla Biennale e ad altre istituzioni, siamo riusciti a far sì che i testi vincitori del bando di drammaturgia non rimanessero semplici letture ma prendessero vita. Spero che questo esperimento possa continuare con la nuova direzione.
Nel nostro piccolo, siamo riusciti a dare visibilità e spazio di ricerca alle creatrici e ai creatori, a fare in modo che questo luogo, chiamiamolo “metafisico”, si trasformasse in una serra nella quale far fiorire i boccioli, con i loro profumi inebrianti, i loro vocabolari di emozioni e linguaggi.
Vivo in Francia e sono certo che, dal punto di vista della drammaturgia contemporanea, ora siamo alla pari. L’unica lacuna in Italia riguarda gli investimenti, e parlo anche delle case editrici che si occupano di teatro. In Francia ne esistono tante che pubblicano la nuova drammaturgia, alcune di eccelso valore; ciò dà la possibilità ai registi di scoprire nomi e scritture. In Italia, invece, sono poche le case editrici che si occupano di teatro, senza però scommettere e investire; anche per questo raramente i nostri testi valicano i confini.
La fine di questo percorso è un punto di arrivo o di partenza?
È un punto [ride]. Io sono una persona molto curiosa, quindi, dopo quattro anni di direzione alla Biennale Teatro, sento il bisogno di iniziare un altro viaggio. Ho cominciato a fare le valigie per nuovi itinerari, come la conduzione di una masterclass a Tunisi che inizierà a breve. A settembre, uscirà la mia traduzione di La mort difficile del poeta René Crevel, per la nuova casa editrice di Laura Putti, Ventanas. In futuro mi vorrei dedicare all’editoria e continuerò a scrivere, ma forse per un po’ non ci saranno spettacoli.
Come valuta i risultati, i frutti della sua direzione artistica della Biennale Teatro? C’è qualcosa che cambierebbe?
Si dice “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja” [ride]. Gli spettacoli scelti sono stati voluti, come un genitore che desidera un figlio. Non è sempre stato facile trovare l’equilibrio che permette di prendere le decisioni, però non modificherei nulla: voler cambiare significherebbe aver fatto scelte di cui non si è più convinti, mentre tutto di questo Festival è stato valutato e pensato a lungo. Piuttosto aggiungerei: avrei una miriade di nuove idee che mi piacerebbe vedessero la luce.
Come immagina il teatro del futuro?
Non esiste un teatro, ma tante forme di teatro. Credo si debba fare in modo che l’artista diventi una cassa di risonanza per gli interrogativi capitali del nostro tempo. Può farlo in qualsiasi modo, l'importante è che riesca a far fiorire le emozioni che consentono di instaurare una conversazione diretta con il pubblico, non inteso come massa, ma come insieme di singoli individui.
Il fil rouge di questa edizione del Festival è Niger et Albus, e in questo emerge il tema del “confine”. Che significato assume nell’ambito della Biennale Teatro?
Ho costruito tutto il mandato sul bisogno dei perimetri: diventano gabbie che ogni volta devi oltrepassare. È una questione che mi ha sempre accompagnato, come regista; con questa edizione ho cercato di raccogliere artisti che continuano a disegnare il loro percorso fuori dai confini, che tentano di dare un senso in primis al loro agire quotidiano come individui.
Nella presentazione in catalogo è stato evidenziato un collegamento con i tarocchi. Perché associare a ogni artista un arcano maggiore?
I tarocchi rappresentano una forma di divinazione, la possibilità di andare oltre la superficie e il concreto. Oggi c’è la tendenza di limitarsi a guardare ciò che è rappresentato; il tentativo, invece, consiste nell’andare a vedere cosa che c’è sotto, il pensiero che ci muove.
Se dovesse dare un consiglio a un/a giovane regista che ha appena scelto la strada del teatro in Italia nel 2024, cosa suggerirebbe? E, se potesse tornare indietro nel tempo, analogamente, che indicazione darebbe al “giovane sé stesso”?
In questi anni, mi sono reso conto delle difficoltà di creare un terreno sul quale i giovani talenti e le nuove visioni potessero germogliare, qualcosa che nel panorama teatrale italiano non c’è. Quindi, ho cercato di costruire nell’ecosistema della Biennale alcuni percorsi che consentissero di accrescere la volontà di resistere. Questo credo sia il consiglio più onesto: la resistenza, parola oggi decisiva, nel senso di unire le forze e combattere contro.
Cosa suggerirei al giovane me stesso? Rifarei esattamente tutto quanto, ma vorrei avere l’esperienza di oggi per ripercorrere la strada che ho fatto.
Che ruolo pensa di aver avuto nella ripartenza del teatro dopo la crisi pandemica, dal momento che la prima edizione del Festival da lei diretta si è svolta nel 2021?
Quella fase è stata l’eco di una crisi che nel teatro c’era già da molto tempo. Con questo mandato, il mio tentativo dopo la pandemia è stato quello di riscrivere da qui la possibilità per un teatro che opera a livello planetario con artisti che dialogano tra loro, pur con grammatiche completamente differenti: esiste una comunità di intenti, indipendentemente dalle lingue e da quello che accade in scena.
In che modo è possibile investire sulle progettualità artistiche in un mondo dominato dall’iperproduttività e quali sono stati i frutti dell’investimento della Biennale Teatro dal 2021 al 2024?
Credo che il discorso sulla frenesia che ci circonda, sull’ascolto reciproco, sul rapporto con le tempistiche sia squisitamente individuale: ciascuna persona decide se starci dentro oppure opporsi, e come. In questi giorni, infatti, abbiamo visto artisti che presentano modalità differenti di studio del tempo; credo che questo sia fondamentale per ricostruire noi stessi, la propria percezione, una nostra velocità.
Come Direttore Artistico, ho cercato costruire un posto dove ci fosse la possibilità di sperimentare. Non significa per forza stare fuori dal coro, ma avere l’opportunità di sviluppare quello che è il proprio mondo interiore e il proprio pensiero.
Dal suo punto di vista, quali sono le attuali direzioni lungo cui si sta muovendo il teatro internazionale? E dove si posiziona, in questo contesto, la scena italiana?
Non credo che il teatro internazionale sia da celebrare a prescindere, anche in rapporto a quello italiano, nonostante naturalmente ci siano contesti molto attivi, per esempio nel sistema produttivo francese. In generale, in Europa esistono molteplici forme di spettacolo, ma tutto dipende sempre dalle opportunità di produzione e dai sostegni dello Stato. A parte questo, il teatro va dove vanno gli artisti.
Inoltre, in Italia come all’estero, ci sono poli che funzionano, consapevoli dei cambiamenti in atto e impegnati a trovare contaminazioni interessanti. Queste strutture lasciano intuire che, forse, da qui a cinque anni, si potranno costruire nuove ipotesi di teatro.
In particolare, ci sono direttori artistici che hanno iniziato da tempo a progettare, non tanto una programmazione, ma un pubblico nuovo. Questo ritengo sia fondamentale: ci darà la possibilità di avere uno sguardo a 360° su quello che accade.
Qual è il ricordo per lei più caro di questi quattro anni di direzione artistica?
A parte ricordi personali molto importanti, ritengo che le scelte effettuate attraverso il College, i bandi e i riconoscimenti dei Leoni d’Oro e d’Argento abbiano avuto delle conseguenze sul percorso degli artisti coinvolti; in questo senso, per loro, credo si siano aperte nuove possibilità.
La fine di questo percorso è un punto di arrivo o di partenza? Cosa si aspetta per il futuro?
Mi sento sempre una persona al punto di partenza, orientato verso il futuro, che è fecondo di possibilità. Mi aspetto di continuare a vivere bene come adesso, avere energie, amore per la vita e gli altri: in questo momento, mi sento perfettamente felice. Trovo che sia importante dirlo. Inoltre, riprenderò a lavorare in campo artistico, con progetti che realizzerò appena finito il mandato.