Per lungo tempo il sipario è stato uno dei simboli del teatro di tradizione, marcando fisicamente la separazione fra palco e platea. Ma ogni confine è sempre una soglia da attraversare: allora, il sipario rappresentava anche la promessa di poter entrare in contatto con il mondo altro, più o meno fictional, che si materializza ogni sera in scena, con la vita talvolta segreta di attori e attrici.
E se negli anni gli artisti più radicali ci hanno abituati a rinunciare a quel limite – spesso di velluto rosso –, l'appello al ROT che dà il titolo alla Biennale Teatro 2022 forse ci invita, fra le altre cose, a tornare a immaginare un contatto possibile fra realtà differenti. E, allora, che si alzi il sipario: fra poco sul Festival e, intanto, sul nostro laboratorio di critica!
Roberta Ferraresi
Come si può declinare il valore pedagogico del teatro? Viene da chiedersi quali e quante siano le modalità formative e a chi si rivolgono. Da molti anni La Biennale affianca alle proprie edizioni alcuni workshop, percorsi di perfezionamento, laboratori dallo scopo didattico, spazi capaci di creare comunità. La Biennale College Teatro chiama a sé giovani artiste, critici, autrici, cantanti lirici e non, attrici, drammaturghi, registe, performer e creatori video. Il rimando immediato al collegio anglosassone e a quell’esperienza di residenza e collettività può anche diventare un riferimento a un collage tra discipline e mondi, che a Venezia e nei suoi teatri trovano un punto di incontro. La città lagunare diventa casa, edificio e habitat per questo gruppo di colleghi, e testimonianza di qualcosa che sarà.
Ogni Masterclass è guidata da una figura di riferimento. Per esempio, dieci performer hanno la possibilità di seguire il regista svizzero Milo Rau nel processo iniziale di creazione di All Greek Festival, una messa in scena di tutte le trentadue tragedie greche giunte fino a noi. A partire dal lavoro di Rau sulla rappresentazione della violenza, il laboratorio propone un esame intellettuale del concetto di tragico, della sua funzione sulla scena e nella nostra contemporaneità. Carlus Padrissa, co-fondatore de La Fura dels Baus, sceglie L’opera immersiva come titolo del proprio workshop: tre attori, tre attrici e quattro creatori video sperimentano l’alterazione della percezione della realtà, l’espressione della paura, il sopraggiungere del terrore.
Invece, il gruppo affidato al performer e curatore Caden Manson del Big Art Group lavora sul corpo e sul digitale riunendo danzatrici, scrittori e attrici. I registi e performer Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si concentrano sull’autorialità dell’attore, a cui è richiesto di costruire una propria narrazione a partire da una breve scena, un materiale o una sequenza fisica. Il drammaturgo Davide Carnevali, nella prima fase del Bando per Autori/Autrici Under 40, offre il suo sguardo incentrato sulla scrittura teatrale intesa come azione in un percorso in cui i partecipanti potranno lavorare insieme o singolarmente. Anche il canto lirico trova uno spazio: la regista d’opera Rosetta Cucchi, il coreografo Ron Howell e la direttrice d’orchestra Maria La Franca lavorano su quattro secoli di canto lirico a partire dal Don Giovanni di Mozart, con l’intento di porre l’attenzione al corpo in scena e alla sua libertà, tra le maglie di una partitura e di un testo prestabiliti.
Infine, con un pizzico di autoreferenzialità, anche le righe che state leggendo sono prodotte all’interno del progetto Biennale College: Andrea Porcheddu e Roberta Ferraresi curano il workshop di critica teatrale, animando la nostra redazione di sei giovani che seguirà, racconterà, analizzerà, commenterà eventi e spettacoli dei prossimi intensi dieci giorni.
La vocazione della Biennale come scuola si riflette anche nello strumento di accompagnamento al Festival: il catalogo curato da Eleonora De Leo in collaborazione con Liliana Laera, su progetto grafico di Headline. Al suo interno, la perentorietà della scritta ROT in copertina si moltiplica e si articola nei tanti “rossi” delle pagine da sfogliare, ognuno precisamente identificato dal codice alfanumerico con cui i grafici nominano i toni da utilizzare. Accanto ai colori, nel volume, si rincorrono immagini di vene, arterie, bulbi oculari, muscoli e ossa. Gli strumenti per tagliare, incidere o suturare il corpo stanno accanto a quelli per auscultarlo, e insieme incorniciano le parole, le schede e le introduzioni ai protagonisti. Significativamente, il racconto degli spettacoli affianca le presentazioni dei laboratori del College e dei maestri che li conducono. Suoni, graffi e lacerazioni si alternano nel racconto di questo Festival. Il rosso, che fa da sfondo, abbraccerà anime immacolate, ma anche corpi vivi e pulsanti. Si impara, insieme, sulle tavole anatomiche del teatro.
«Impietosa e acuta osservatrice della violenta crudeltà del nostro mondo»: è l’incipit della motivazione di Stefano Ricci e Gianni Forte per descrivere Christiane Jatahy, artista associata di numerose istituzioni dall'Odéon-Théâtre di Parigi al Piccolo Teatro di Milano e Leone d’Oro alla carriera della Biennale Teatro 2022. Fin dagli esordi nei primi anni Duemila, i lavori dell’autrice e regista brasiliana classe 1968 si pongono all’insegna della commistione di linguaggi e di piani di realtà, cifra divenuta ormai firma inconfondibile delle sue opere.
Consacrata anche come filmmaker grazie alla pellicola sperimentale A falta que nos move (2011), elaborata a partire da uno spettacolo e girata durante un’unica sessione di 13 ore (https://christianejatahy.com/creation/a-falta-que-nos-move/), nel corso della sua carriera Jatahy non smetterà mai di fondere il codice filmico con quello teatrale. Il palcoscenico acquista così una terza dimensione, in grado di potenziare il coinvolgimento dello spettatore e mettere in dubbio il confine fra reale e finzionale. È il caso di E se elas fossem para Moscou? del 2014 (che ha vinto il premio brasiliano Shell per la miglior regia nel 2015), in cui l’artista e la sua compagnia Vertice de Teatro mettono in scena Le tre sorelle di Čechov per due volte: metà pubblico assiste alla performance live in teatro mentre l’altra metà ne vede il montaggio in diretta proiettato su grande schermo, poi i due gruppi si invertono.
I riferimenti a opere classiche intramontabili ampliano la significanza dei rimandi specifici al Brasile, presenti in modo più o meno lampante in quasi tutti i suoi lavori: da Julia (premio Shell per la miglior regia nel 2012), che ripropone i contrasti sociali del testo di Strindberg calati nel panorama brasiliano; fino ad arrivare a Entre chien et loup (2021), prima tappa di una Trilogia del Terrore dedicata proprio ai conflitti e alle odierne ingiustizie politiche e sociali. Ispirandosi a Dogville di Lars Von Trier, Jatahy predispone una sorta di esperimento umano, sia recitato che ripreso in diretta, allo scopo di provare a cambiarne il drammatico finale. La protagonista, Graça (impersonata dall’attrice brasiliana Julia Bernat), abbandona il francese usato nella performance e prende la parola in portoghese per denunciare senza mezzi termini il fascismo dentro e fuori dal Brasile.
L’uso del mezzo cinematografico, lungi dall’essere un mero elemento stilistico, diventa una modalità di manipolazione del reale, non per documentarlo oggettivamente ma, con una politicità quasi brechtiana, per agire su di esso. Non a caso, Graça è una rifugiata scappata dal suo Paese, altro tema ricorrente nelle regie di Jatahy, sviscerato in un dittico di spettacoli ispirato all’Odissea di Omero: Ithaque (2018) e O agora que demora / The Lingering Now (2019). Quest’ultimo, che approda alla Biennale di Venezia 2022 in prima nazionale, moltiplica il viaggio di Ulisse attraverso i filmati di migranti realizzati in Palestina, Libia, Grecia, Sudafrica e Amazzonia. Ciascuna delle persone riprese si fa attore del suo nóstos: non si tratta – specifica la regista nelle note di accompagnamento allo spettacolo – di un documentario ma piuttosto di una lettura di esperienze reali attraverso la finzione letteraria e teatrale. Così, il video non vuole essere una testimonianza ma costituisce un ponte volutamente traballante gettato fra spettatore e attore, fra realtà e finzione: attraverso di esso il pubblico precipita all’interno della performance per riemergerne, alla fine, più cosciente del mondo in cui vive.
Ogni notte, il buio calerà sulla laguna di Venezia e su un’impegnativa giornata di spettacoli, laboratori, tavole rotonde, premiazioni, interventi, interviste, buffet, talk, post.
Ogni notte, lo stesso buio arretrerà davanti alle parole e ai versi di Alda Merini, che echeggeranno nello spazio esterno di fronte all’Arsenale. Per la cinquantesima edizione della Biennale Teatro, infatti, i direttori Stefano Ricci e Gianni Forte hanno deciso di presentare una rassegna di reading dedicata alla poetessa milanese, intitolata Late Hour Scratching Poetry.
La lettura ad alta voce è una modalità espressiva che sta progressivamente prendendo piede all’interno del teatro contemporaneo. Tuttavia, non sappiamo se l’effetto, o quantomeno il riferimento più prossimo, sarà l’epocale lectura Dantis di Carmelo Bene a picco su Bologna; l’ondeggiante sonorità della dub poetry inaugurata alla fine degli anni Settanta da Linton Kwesi Johnson; il modo dinoccolato del poetry slam contemporaneo, quello più serrato e ruvido dello spoken word, che il pubblico della Biennale ha conosciuto grazie a Kae Tempest, Leone d’Argento della scorsa edizione; oppure un orizzonte ancora diverso, intimo e insieme universale.
Proprio Alda Merini, in effetti, prescriveva per la poesia una dimensione ampia e una funzione curativa: «La poesia dovrebbe essere un fenomeno un po’ più extraconiugale, diciamo un fenomeno collettivo. […] La poesia educa il cuore, la poesia fa la vita, riempie magari certe brutte lacune, alle volte anche la fame, la sete, il sonno». Questo stralcio è tratto da La pazza della porta accanto, raccolta di annotazioni, massime, pensieri e racconti che Merini pubblicò nel 1995 e che sarà al centro della rassegna curata da Galatea Ranzi.
Ranzi, che vanta un Premio Ubu come miglior “nuova attrice” (1998) e una nomination ai David di Donatello come miglior attrice non protagonista per La grande bellezza (2014), ha personalmente selezionato otto interpreti diplomate all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” che si alterneranno al suo fianco nella lettura dei testi.
Il compito di inaugurare il Late Hour Scrathing Poetry verrà affidato ad Asia Argento, vincitrice del David di Donatello come miglior attrice protagonista per Perdiamoci di vista (1994) e Compagna di viaggio (1997), e nota negli ultimi anni per la sua militanza all’interno del #MeToo, movimento contro le molestie e gli abusi sessuali sorto anche a seguito delle sue accuse nei confronti del produttore statunitense Harvey Weinstein. A chiudere la rassegna sarà, invece, Sonia Bergamasco, autrice di un libro di poesie di recente uscita, Il quaderno, impegnata negli ultimi mesi in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella e celebre interprete sotto la guida di alcuni dei più importanti artisti del teatro contemporaneo (da Giorgio Strehler a Carmelo Bene, fino a Thomas Ostermeier).