«Ed è vero, siamo immuni, quando un fatto è finzione e la TV realtà. E oggi milioni di persone piangono; noi mangiamo e beviamo mentre domani moriranno». Le battute finali di Sunday Bloody Sunday degli U2 risuonano in questa domenica veneziana. Oggi è stato consegnato il Leone d’Oro a Christiane Jatahy, narratrice di odissee individuali e collettive; ieri sera Olmo Missaglia, regista under 35, ha messo in scena uno spettacolo sul disorientamento – soprattutto etico – della sua generazione.
La società teatrale si interroga sull’attuale rappresentabilità della tragedia, sulla sua capacità di intercettare il senso delle sofferenze contemporanee. Ci si chiede cosa possa fare il teatro per combatterle, mentre senza sosta assediano le nostre false coscienze.
Matteo Valentini
«Il teatro non si fa da soli»: con queste parole, che subito oltrepassano i confini e i meriti dell’Io, la regista brasiliana Christiane Jatahy ha ringraziato i Direttori ricci/forte per il Leone d’Oro alla carriera ricevuto in questo 26 giugno 2022. Nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, Jatahy ha letto il premio come una conferma al proprio percorso e alle scelte intraprese come artista, come donna e come latinoamericana. Questa sua capacità di allargare costantemente lo sguardo è sicuramente tra i motivi per cui il pubblico in sala l’ha accolta con emozione e trasporto.
Nel discorso di conferimento del Leone i Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte hanno confermato che negli anni Jatahy è diventata maestra nella commistione dei generi: le sue «trappole narrative» hanno saputo andare contro ogni visione naturalistica e contro ogni regola della rappresentazione. Nelle motivazioni sottolineano la capacità di sguardo, inteso tanto come presa sul reale e sulla sua violenza quanto come attenzione nei confronti del pubblico e del suo coinvolgimento. Ci sono, infine, profonde ragioni politiche: Jatahy non si è mai sottratta davanti alla storia e al presente del suo Paese, il Brasile, e si è invece fatta «portavoce militante» contro i fascismi di oggi.
Questi e altri temi sono emersi nella successiva conversazione con l’artista: l’importanza di una formazione ampia, tra teatro e cinema, filosofia e giornalismo; il ruolo dei classici europei, e dunque anche l’implicito e problematico legame con le tradizioni letterarie, lingue e culture dei colonizzatori; o ancora, il rapporto tra personale e politico. Il grande interrogativo sottostante era naturalmente uno: quello sulle possibilità dell’attivismo e sul significato dell’impegno per un’artista di oggi. La regista ha dunque raccontato cosa significhi per lei la lontananza dal proprio Paese, un Brasile che ogni giorno la costringe a fare i conti con le disuguaglianze, con le ingiustizie, con molte forme di censura, nonché con un mondo del teatro in serie difficoltà. L’autrice non può dirsi propriamente esiliata dalla sua terra, ma è inevitabilmente la situazione politica attuale ad averla costretta a cercare altri luoghi da abitare e in cui lavorare.
La necessaria conquista di un proprio spazio sembra una costante del lavoro di Christiane Jatahy: la sfida più grande per i corpi di oggi è quella di trovare un posto nonostante violenze, pressioni e discriminazioni. La regista, consapevole di ciò che ha significato nel suo percorso essere donna, ed essere donna bianca, ha insistito su una necessaria pluralità degli spazi: spazi intesi come luoghi fisici, come terre di passaggio in cui abolire ogni confine, come mondi di provenienza o di vita. Luogo, infine, è anche quello della persona, quello spazio «un po’ magico, presente a priori».
Sin da piccola, quando ancora non sapeva cosa fosse il teatro, Jatahy è stata conquistata da quanto accade tra sala e palco, da ciò che si innesca nel pubblico all’arrivo degli attori: per usare le sue parole, da ciò che avviene «quando ha inizio la magia». Sulla scia di quella attrazione, e dopo una brillante carriera, questa premiazione dà più di un segno di speranza. Prendendo in mano la statuetta dorata, Jatahy ha affermato che il teatro può e deve modificare la realtà: «Questo premio mi fa continuare a credere che tutto sia possibile. Il mio messaggio è che non bisogna mai arrendersi».
Andare a torsio è un modo di dire veneziano che significa “girovagare”, “farsi trascinare dalla corrente”, riporta Graziano Graziani nella sua guida letteraria A Venezia. Da Brodskij a Bolaño (Perrone, 2021). In realtà, non c’è modo migliore per scoprire Venezia.
Ci si può recare da un campo all’altro percorrendo stradine diverse – note comunemente come calli – restando estasiati da come, casualmente, la via imboccata dimezzerà di gran lunga il cammino o, al contrario, spingerà in un corridoio che si credeva di aver già percorso ma che aprirà la strada a nuove deviazioni. Senza certezza della scelta compiuta, il fascino della scoperta sarà uno stimolo a continuare la ricerca.
Inconsapevolmente, si transiterà fra diversi sestieri (le zone in cui è divisa l’isola), restando folgorati dalla bellezza di Piazza San Marco e rapiti dalla musica suonata dal vivo. Alla ricerca di un’ombra di vino o di un caffè, si potrebbe capitare a Ca’ Giustinian, sede storica della Biennale ed emblema del tardo-gotico veneziano. Da qui si può proseguire fino a Campo Santo Stefano, uno dei più vasti di Venezia, non lontano dal Ponte dell’Accademia; poco distante, più intimo e nascosto, c’è Campo Sant’Agnese. Altrove si chiamerebbero semplicemente “piazze” ma a Venezia prendono questo nome perché, in origine, si trattava di prati o – appunto – campi coltivati tanto che, ancora oggi, l’erba ancora spunta fra le basole della pavimentazione come se volesse riprendere possesso del terreno.
È proprio in questi luoghi che si terranno le due performance site-specific inserite nel programma della Biennale 2022: rispettivamente Under an Unnamed Flower di Aine E. Nakamura e Odorama di Antoine Neufmars. Gli artisti, che debuttano domenica 26 giugno, sono i vincitori del relativo bando, aperto per la prima volta nella scorsa edizione del Festival e fortemente voluto dai direttori.
Grazie al percorso di residenza in città, il fatto artistico diviene strumento di cui ci si serve per incontrare la comunità. Durante le prove in loco, gli interpreti hanno infatti il tempo di entrare in sintonia con l’ambiente, assorbirne le particolarità ed esserne nutriti in un’interconnessione intima. In questo modo, si tenta di stabilire un contatto con la collettività che al giorno d’oggi risulta difficoltoso, non solo in campo artistico. Si tratta, come scrivono Ricci e Forte nella presentazione, di rispondere alla «necessità di costruire un gesto performativo nei perimetri sociali del quotidiano».
In nessun caso il teatro può prescindere dal contesto in cui viene realizzato; a maggior ragione se si parla di site-specific, lo spazio modella in modo programmatico l’evento artistico che ospita: la geografia del luogo e la contingenza del pubblico sono elementi strutturali quanto l’azione dell’attore. Infatti, nelle note di presentazione delle proprie opere, Nakamura (classe 1982), aggiunge il termine “time-specific” per descrivere il suo lavoro, mentre Neufmars (classe 1984), sottolinea l’importanza dello spettatore, che «ha un posto speciale, diventa un testimone, a volte un voyeur».
La “platea” è costituita, oltre che da un pubblico consapevole della programmazione, anche da veneziani di passaggio e da turisti intenti a bighellonare, stupiti dallo scrigno delle meraviglie racchiuso nella città lagunare. Le location individuate sono infatti due spazi di transito per eccellenza, cuori pulsanti della vita della città. Non è previsto alcun biglietto d’ingresso, scelta che sottolinea la volontà di Biennale Teatro di rendere fruibile in senso ampio il lavoro dei perfomer nel contesto dello spazio pubblico.
Chi andrà a torsio potrà quindi incappare anche in questi eventi: accadimenti inaspettati che forse diverranno parte della memoria collettiva del luogo, tanto quanto le mattine caotiche del mercato e le grida dei bambini che forse diverranno parte della memoria collettiva del luogo, tanto quanto le mattine caotiche del mercato e le grida dei bambini che si rincorrono in campo.
«Ogni tragedia è un tentativo di abolire il tragico» afferma Milo Rau. Eppure, dopo due millenni e mezzo, il presente si scontra ancora con quegli archetipi, con quel bisogno di esorcizzare il male, con quella necessità di catarsi collettiva, in una polis globale e disgregata. E se Aristotele ha commentato la tragedia, se Nietzsche ne ha teorizzato la nascita e Steiner ne ha obiettato la morte, il confronto con il tragico rimane tutt’oggi centrale per la contemporaneità.
Rimandando all’articolato studio Tragedia e teatro drammatico di Hans-Thies Lehmann (Cue Press, 2022), nel nostro workshop abbiamo constatato che la disputa sul tragico irrompe prepotente anche nel cartellone di Biennale Teatro, sia come citazione e rielaborazione di testi classici, sia come rappresentazione della violenza.
Su questi temi riflettono ormai da molti anni Christiane Jatahy e il pluripremiato regista svizzero Milo Rau, arrivato ieri a Venezia. Si pensi a Orestes in Mosul (2019), messinscena dell’Orestea di Eschilo per le strade della martoriata città irachena, con il coinvolgimento di attori professionisti e abitanti del luogo, di cui viene proiettato un documentario “making of” durante il Festival. Oppure all’ispirazione omerica di O agora que demora / The Lingering Now (2019) di Christiane Jatahy, universalizzazione del nòstos di Odisseo, in cui l’epica si fa tragedia. L’esilio e la disperata ricerca di casa diventano condizione esistenziale che pone diversi popoli in stretta relazione tra loro; è racconto di guerre, di soprusi, di confini, di muri, di prigioni, di migrazioni, di dittature. Le nuove odissee, epopee contemporanee ma assolute, assumono toni di denuncia, narrazioni in cui il conflitto tragico torna a fare capolino.
L’uccisione del tragos, del capro espiatorio, genera una catarsi per lo spettatore, una necessaria purificazione che si rinnova con il rito teatrale. La tragedia greca non porta la violenza sulla scena, la racconta; in maniera simile, in alcuni spettacoli vengono impiegate tecniche da reportage per testimoniare la cronaca di crimini e drammi del nostro tempo, con un debito verso i messaggeri greci che annunciavano i truci fatti accaduti. Così in La Reprise. Histoire(s) du théâtre I di Milo Rau è riportata la brutale uccisione di Ihsane Jarfi fuori da un locale gay del centro di Liegi, in Belgio. È una morte che diventa fatto collettivo. E ancora il tribunale, utilizzato a più riprese negli spettacoli di Rau, è concepito come un’altra forma di tragedia. Lo rivediamo alla Biennale Teatro con il documentario The Congo Tribunal, in cui il regista ha raccolto parole di vittime, carnefici e studiosi del conflitto civile in Congo degli ultimi vent’anni. D’altronde, anche l’Oreste eschileo si trova di fronte al giudizio dell’areopago, il più antico tribunale d’Atene.
Apparentemente lontanissima da ciò di cui stiamo parlando, Yana Ross porta in scena Brief Interviews with Hideous Men, ispirato alla raccolta di racconti di David Foster Wallace. Ecco la mascolinità tossica, il lavaggio del cervello, la violenza soprattutto sessuale, la disumanizzazione degli “uomini schifosi”, e i modi dell’intervista per la rappresentazione di questi orrori. La brutalità non è edulcorata, in una sorta di figurazione tragica della società contemporanea.
Anche nel College ferve l’indagine sulla tragedia. Il nuovo progetto in cantiere di Milo Rau, All Greek Tragedy, prevede di mettere in scena tutte le trentadue tragedie classiche giunte fino a noi. Il processo inizia qui, a Venezia, in un laboratorio tenuto dal regista, aperto a dieci attori, attrici e performer.
L’interesse per temi atavici, per sentimenti eterni eppure sempre rinnovati nelle forme della contemporaneità, si rigenera. Dunque il classico illumina la violenza del presente. Oggi quella violenza è manifesta sul palco, è visibile ai nostri occhi, talvolta assuefatti, tra feroci immagini di guerre, negazione di diritti e assassini, anche nel democratico Occidente.
Riesce così il teatro, con irruenza ed emozione, a produrre un cambiamento nelle nostre coscienze? Può darsi, ma la vera sfida ora è arrivare alle menti dei cittadini di una polis che guarda altrove, o che forse non esiste più.