La ricerca dell'identità è il fil rouge che si scorge nelle mise en lecture dei testi di Tolja Djoković e Giacomo Garaffoni, i vincitori del bando 2021 dedicato agli Autori Under 40. In entrambi, la parola poetica è contaminata da possibilità di linguaggio inaudite, riportando alla luce quanto non si sapeva di aver smarrito.
Così è anche in Loco di Belova/Iacobelli, omaggio alle Memorie di un pazzo di Gogol' che incanta lo spettatore, guardando oltre e stabilendo un dialogo che restituisce al teatro leggerezza e timore. Ma anche accogliendo la responsabilità di narrare quel residuo coraggio che lega alla vita tanto il celebre autore russo, quanto noi, nelle nostre esperienze personali.
Vittoria Biasiucci
Durante i sopralluoghi in Palestina per Il Vangelo secondo Matteo (1964), Pier Paolo Pasolini fu costretto a dichiarare il fallimento dell’impresa che lo aveva condotto nei luoghi della storia evangelica: «Il mondo biblico appare, sì, ma riaffiora come un rottame». Il regista cercava – e li avrebbe trovati a Matera – volti, luoghi, edifici che non avessero conosciuto il cristianesimo e il capitalismo. Il cinema era inteso come strumento di prelievo di «brandelli di realtà», da utilizzare non ai fini dell'esattezza documentaria, ma per la restituzione di un’essenza.
Già da mezzo secolo Marcel Duchamp aveva insegnato che cosa potesse diventare un orinatoio firmato, datato e disposto su un piedistallo. Il ready-made segnò una rivoluzione: da creatore, l’artista divenne un selezionatore di oggetti, intento in un loro riposizionamento che mettesse in discussione i limiti tra realtà e arte. Il lavoro di Milo Rau, presente alla Biennale con una retrospettiva cinematografica, si fonda su questa pratica, benché il suo riferimento più prossimo sia senz’altro Pasolini. E se quest’ultimo non tollerava interferenze tra le forme del passato e i moderni elementi ambientali, il regista svizzero invece intende volutamente far risaltare le discrasie temporali che denunciano la natura finzionale dei suoi film.
The New Gospel (2020) è la messa in scena di un remake del Vangelo secondo Matteo che coinvolge, in particolare, i braccianti della Felandina, ghetto vicino a Matera. Tra le riprese di alcuni momenti dell’opera pasoliniana, in cui la mimesi contrasta con la disillusione, si fanno spazio interviste a piccoli coltivatori locali, documentazioni di sfratti, approfondimenti sul caporalato e sulle pratiche di resistenza.
Benché in modi diversi, il campionamento del reale è utilizzato anche negli altri film in rassegna. The Congo Tribunal (2017) documenta il duplice processo inscenato da Rau contro le compagnie minerarie e le istituzioni governative della regione congolese del Sud Kivu, a Bukavu, e contro l’Unione Europea e la Banca Mondiale, a Berlino. L’accusa è quella di essere responsabili delle violenze decennali perpetrate in Congo. Per sostenerla, vengono chiamati a testimoniare le vittime delle ingiustizie in questione, esperti e ministri, i quali, alla fine, possono essere interrogati anche dal pubblico in sala.
Un altro tribunale viene istituito al termine di Orestes in Mosul: The Making of (2020), diretto da Daniel Demoustier sulla base dell'omonimo spettacolo di Rau. La narrazione eschilea è qui piegata a rappresentare le conseguenze della riconquista, da parte del governo iracheno, della città di Mosul, occupata per più di due anni dai miliziani dell’ISIS. Viene discusso il trattamento da riservare a coloro che hanno portato sofferenza e morte nella comunità. Sono intervistati i testimoni delle violenze perpetrate dallo Stato Islamico, mentre alcuni luoghi-simbolo delle efferatezze sono risignificati attraverso azioni performative (per esempio, il bacio tra due uomini in cima all’edificio da cui i miliziani scaraventavano le persone omosessuali della città).
Infine, Familie (2020) riprende l’omonima pièce che narra l’ultima cena della famiglia Demeester, nel 2007 protagonista di un suicidio collettivo. Come negli spettacoli La Reprise – presente nella programmazione della Biennale – o Five Easy Pieces, Rau è interessato ad analizzare i grumi di violenza che si annidano sotto la superficie calma e anonima della medio-borghesia europea. Per farlo, non pratica veri e propri prelievi di elementi reali, ma invita una famiglia di attori a impersonare i Demesteer. L’esposizione del dato di realtà, in questo caso, agisce sul pubblico a livello empatico ed esistenziale, mentre nelle altre opere citate riguarda piuttosto una presa di parola politica, un atto di rappresentazione e rappresentanza. In tutti e quattro i lavori, però, l’obiettivo non è tanto restituire il reale nella sua essenza originaria, quanto scoprirlo e ridisegnarlo attraverso la finzione.
Il palco è buio, invisibile. Si accendono le luci e immediatamente veniamo trasportati in un dipinto di Caravaggio; un gioco di ombre e tinte marroni pastello ci accompagna all’inizio della scena, insieme al suono di violini e voci sussurranti. Vediamo seduto sul letto al centro del palco un uomo: Popriščin.
Tita Iacobelli e Marta Pereira manipolano e danno vita al protagonista. In un gioco a quattro mani e quattro gambe, le due interpreti riescono ad animare non solo un corpo ma anche i suoi sogni, le sue idee e la sua follia. La marionetta e, con lei, tutti i dispositivi che appaiono sulla scena creano un mondo di solitudine e illusione.
Ispirato a Le memorie di un pazzo dello scrittore russo Nikolaj Gogol’, Loco è la storia di un uomo ordinario a cui succedono fatti straordinari. Popriščin, copista al Comune, è innamorato di Sophie, la figlia del Sindaco, e cerca in tutti i modi di conquistarla. La crudele verità è che Sophie in realtà lo deride e vuole sposare un colonnello o un banchiere. Il protagonista scopre tutto ciò grazie alle lettere scambiate fra due cani – che nella sua follia legge e sente parlare –, impersonati dalle animatrici, anch'esse fattesi personaggi che stanno al di fuori della marionetta ma comunque fanno parte del suo inconscio, come due cornacchie che suggeriscono pensieri impensabili. Così Popriščin, ferito, dopo aver scoperto che il posto del sovrano di Spagna è vacante, si impersona re Ferdinando VIII. L’ironia con cui la vicenda è narrata fa ridere con amarezza, di quel riso intriso di tristezza che è la sola via di fuga dal patetismo.
L’unico oggetto identificabile sulla scena è un letto da cui però fuoriescono tutti i personaggi. Un pesce, che invade i sogni del copista, si libera dalle coperte e nuota libero a mezz'aria. Sophie è un lenzuolo elegante che si trasforma da oggetto in sogno vivente. Un cuscino diventa la coscienza personificata del protagonista, un pezzo di giornale invade la sua testa, un mantello lo trasforma in un sovrano nel suo castello di carta. Sfaccettature, queste, del suo stesso essere, mille volti di un personaggio che non si ritrova più in una sola identità.
Popriščin è un richiamo costante, è il nome del copista del Comune, è un’identità che lentamente si perde e svanisce. Popriščin è un Io che si riconosce sempre in qualcun altro fino a diventare re di Spagna per poi, alla fine, non essere niente. La marionetta rappresenta l’attore incompleto e apparentemente privo di umanità, contenitore vuoto che ognuno può animare con la sua fantasia.
L’infinita dolcezza e delicatezza di questo spettacolo commuove e tocca lati dell’essere umano spesso dimenticati. In scena c’è la debolezza, la nuda sincerità di un uomo innamorato e non corrisposto, la verità di un personaggio solo che si rifugia in un mondo di sogni e illusioni. Respinto da ogni realtà che si è creato, si chiude in sé stesso senza più un’identità.
A un certo punto, appare sulla scena una gigantesca luna di carta fatta di fogli di giornale con notizie non più attuali. Vuole ingurgitare altra carta, altre copie per ingrandirsi e occupare più spazio. Il simbolo del passato che divora il presente, lo schiaccia e spesso lo dimentica. Sulla luna si trovano i ricordi persi degli esseri umani, ma mentre il senno di Orlando viene recuperato, qui non esiste nessun Astolfo ad aiutare Popriščin; e la sua pazzia rimane insita in lui, nella convinzione che, come dice nello spettacolo, «il cervello non è nel cranio ma lo porta un vento che soffia dal Mar Caspio». Il personaggio, a cui ormai ci siamo affezionati, rimane sospeso tra passato e presente in un tempo senza fine, senza identità; è un oggetto che prende vita dalle parole e dai pensieri della gente; un’illusione magica creata dalla compagnia Belova/Iacobelli che ogni sera rivive e muore sotto la fievole luce del palcoscenico.
Nella programmazione della Biennale Teatro 2022 hanno trovato spazio le mise en lecture dei due testi vincitori del bando “Autori Under 40” dello scorso anno: En abyme di Tolja Djoković e Veronica di Giacomo Garaffoni. Dopo aver frequentato il workshop condotto da Davide Carnevali nel luglio 2021, dopo aver superato una selezione e assorbito i consigli dispensati dal drammaturgo, e dopo un anno di lavoro, finalmente gli spunti si sono trasformati in drammaturgie vere e proprie, per presentarsi al pubblico in questa edizione del Festival.
Una mise en abyme è un espediente narratologico che duplica una vicenda raccontando, al suo interno, una sequenza simile; come in una stanza di specchi, il gioco di rimandi può essere infinito: un tuffo nell’abisso, per tradurre l’espressione.
En abyme della drammaturga e attrice Tolja Djoković (classe 1988) è infatti un’immersione nelle profondità multiformi del mare, in cui la potenza evocativa del linguaggio intreccia flussi di storie. L’opera, come un canto, volutamente non segue una linearità ma vuole dare vita a un materiale plasmabile in scena come l’elemento liquido di cui parla: adatto a essere recitato, proiettato o letto, come dichiara nelle note di regia recitate dall'autrice stessa all’inizio della mise en lecture.
La delicata regia di Fabiana Iacozzilli sceglie di impiegare quattro attori (Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni ed Evelina Rosselli) e quasi nessun oggetto di scena, oltre al tavolo, alle sedie e ai microfoni. L’espediente narrativo che funge da esca e incipit è la spedizione del 2012 con cui James Cameron, regista di film come Titanic (1997) e Avatar (2009), raggiunse la fossa delle Marianne, il punto più profondo della Terra. Sulla scena, evocata dalle parole degli attori, vi sono unicamente tre personaggi: un uomo, una donna e una bambina. Nei loro racconti, incastonati l’uno nell’altro, il tema dell’acqua è declinato in modi di volta in volta differenti: è l’oceano delle esplorazioni, la pioggia, una piscina. Come una corrente poetica, il testo trascina in un mulinello di rimandi e significati, fino a esplodere con la potenza di una tempesta in un grido di dolore profondo e struggente, carnale nonostante l’eterea lievità del testo. Quando infine l’attrice prende fiato l’ascoltatore rimane quasi sospeso, investito dall’inconoscibile instabilità della vita che fa mancare il terreno sotto i piedi: “mi fermo a guardare quanto la terra sia fatta ancora di mare”. (C.C.)
Veronica è morta. È difficile da accettare, ma è l’ineluttabile certezza.
Dieci amiche, dieci “Mogli” si radunano attorno alla perdita dell’undicesima compagna. E non vogliono lasciarla andare. È un coro di donne che vegliano, ricordano, pregano per la defunta. Infatti, Giacomo Garaffoni costruisce Veronica sulle parti corali della tragedia greca e attraverso di esse suddivide la drammaturgia: dopo un prologo, ecco annunciata la parodo (l’ingresso del coro in scena) e due stasimi (l’intervento tra un episodio e l’altro). Poi, però, a staccarsi definitivamente dalla struttura tragica, giunge il segno della contemporaneità con l’esplicitazione del momento della catarsi e un epilogo al posto dell’esodo (l’uscita del coro dalla scena). Il testo del drammaturgo cesenate è onirico, frammentato, evanescente, probabilmente efficace in una messinscena più performativa.
Sulle note di musica elettronica mixata dal vivo, accanto alle donne – quattro nella mise en lecture –, Federica Rosellini dà voce a Orfeo, personaggio mitico e mistico, dai contorni ambigui e sfumati. Orfeo è il poeta sceso nell’Ade con la sua lira per riportare in vita l’amata Euridice. Qui è sublimato, è una figura che catalizza, vanamente, le compagne di Veronica. Orfeo diventa centro drammaturgico e funzionale elemento di suggestione. Così, tramite le registrazioni analogiche delle ultime ore di vita di Veronica, il tentativo dei medici di rianimarla con il defibrillatore e le orazioni funebri delle amiche, si cerca di tenere in vita la donna e di negarne la scomparsa.
Prende vita un rito orfico, una danza cianotica che fonde tragedia e scienza, medicina e mistero, proponendo una riflessione sulla perdita al confine tra lo spirituale e la ragione. Veronica è morta ma, viene detto, rimarrà nella carne delle compagne. È la tragedia universale dell’unica ineluttabile certezza. (A.M.)