fbpx Biennale Teatro 2022 | Giorno 7: Sul ponte sventola...
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Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Sul ponte sventola...

Bandiera rossa! È il grido della rivoluzione. E chissà come è riecheggiato ieri nella tavola rotonda con gli artisti e le artiste di questa Rot-Biennale. Ad esempio Carlus Padrissa sventolava il grido della rivolta ricordando quando, sul finire degli anni Settanta, coi suoi compagni diede vita alla Fura dels Baus. Il Caudillo, il dittatore spagnolo, era morto: la Spagna doveva rinascere. Inventare la libertà non è facile. Il teatro è nato assieme alla democrazia, è esso stesso democrazia. E forse oggi più che mai, nel momento in cui le libertà e i diritti sono messi costantemente in discussione, si tratta di trovare spazi in cui sperimentare nuove e possibili forme di convivenza umana e civile.

Andrea Porcheddu

Mentre parliamo delle prose poetiche di Alda Merini e del Late Hour Scratching Poetry di questa Biennale Teatro, Galatea Ranzi mi fa notare che qui all’Arsenale i tecnici usano i “grilli” – cioè i pesi delle navi – per ancorare al terreno le casse, le luci, gli strumenti di lavoro: per fissarli bene contro il vento caldo di questi giorni. Pochi minuti dopo, mentre la accompagno alla pedana, a regolare lo sgabello in vista delle letture della sera, controlla che sul leggio ci siano le calamite bianche, tonde: così i fogli non scapperanno via. È un compito difficilissimo, questo che i direttori Ricci e Forte hanno affidato a Galatea Ranzi per la chiusura delle serate del Festival. Sul finire del giorno, accanto ai padiglioni della Biennale Arte, si legge Alda Merini; sono passi da La pazza della porta accanto, L’altra verità, Lettere a un racconto e da La vita facile. Accanto a Ranzi, sulla pedana, c’è ogni sera una giovane attrice diversa: sono state scelte tra le allieve da poco diplomate all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Ranzi sorride nel pensarsi maestra, e soprattutto davanti a quei testi, dove Alda Merini si rivolgeva spesso, da più grande, alla sé stessa più giovane: «Da anni mi guardo allo specchio […]. Tutte le donne di questa vita, e tu stessa che ora mi stai al fianco, vi siete guardate nel mio specchio» (da La vita facile, 1996).
Sono indicazioni della direzione artistica sia il nome di Alda Merini sia il coinvolgimento del musicista Demetrio Castellucci. A lui è affidato il commento sonoro, che secondo Ranzi si sovrappone alla poesia rubando l’attenzione «al punto giusto», cioè solo quanto basta in questa altalena di sedimenti e dimenticanze.
A partire da qui si è mossa poi Galatea Ranzi per la curatela del progetto, che per l’attrice ha quindi significato soprattutto due cose: la scelta dei passi e l’impostazione della lettura. La selezione delle pagine da leggere, condivisa con Liliana Massari, non è stata guidata dalla necessità di una coerenza tematica. Selezionare – racconta Ranzi – ha significato semplicemente far emergere: decidere, con un po’ di spontaneità, cosa si voleva trattenere tra tutti quei testi, vivi nella loro disorganicità e fatti di ricordi affioranti; dove la malattia e la maternità, la famiglia e le sue maschere si rincorrono, scompaiono e poi magari tornano, ma senza l’esigenza di chiudere cerchi, di riprendere i fili.
Cosa voglia dire leggere la poesia o la prosa poetica, invece, pare abbastanza irrisolvibile. È una domanda che in Italia è stata la radio ad affrontare sistematicamente e da anni, insieme a tante generazioni di ascoltatori. Ben prima di Fahrenheit e dei podcast Ad alta voce, e fin dalla vocazione pedagogica che nel secondo dopoguerra aveva guidato trasmissioni come L’Approdo, la radio italiana ha saputo portare poeti e poete davanti al microfono e, al tempo stesso, coinvolgere gli attori. Si può ancora sentire, grazie agli archivi online, Ungaretti che nel 1969 legge i versi de La madre «come un Nō giapponese»: la similitudine era di Vittorio Gassmann, la cui lettura della montaliana Non chiederci la parola rimane forse uno degli ascolti più preziosi delle teche di viale Mazzini.
Era una generazione, quella di Montale, che aveva imparato a mettere da parte la propria diffidenza per l’alta voce e che aveva insegnato agli attori come «passare dal grado zero»: è questa l’espressione che usa Galatea Ranzi per raccontarmi della necessaria «neutralità» della lettura poetica, di quella logica apparentemente abbandonata per seguire un testo «parola per parola». «Poter sentire e studiare Alda Merini che si leggeva è stata una fortuna», aggiunge. E intanto pensa alle possibilità future di questo progetto: effettivamente, proprio la radio sembra la destinazione più naturale per tenere traccia di queste sere e tornare su queste voci. Forse, quando ascoltiamo, c’è anche dentro di noi qualcosa che agisce come una calamita, o come un “grillo”: qualcosa che decide cosa trattenere e cosa lasciare andare.

«Durante il lockdown, ho iniziato il mio percorso di transizione, assumevo gli ormoni ed ero da solo a casa. Adesso, per la prima volta, divento vivo di fronte alla gente. Le persone trans sono artisti della vita. E la vita, in un certo senso, è una performance perché occorre reinventare un sè diverso ogni giorno». Con queste parole Sam Elagoz, Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2022, è intervenuto alla tavola rotonda Essere, non essere o essere altrove. L’esigenza di avere di fronte a sé uno spettatore è legata alla necessità di un riconoscimento da parte dell’altro, qualcuno pronto ad avvertire il processo di costante costruzione, decostruzione e ricostruzione in cui è impegnata l’identità, di genere e non solo. L’artista finlandese rivendica il diritto alla complessità, a suo dire negato a tutte le categorie non corrispondenti a quella di uomo bianco cis-gender, e cita Walt Whitman per riassumerne il senso: «Mi contraddico? / Va bene, allora mi contraddico / (sono vasto, contengo moltitudini)».
Dal 2013 al 2019, in un periodo in cui ancora si riconosce come artista donna, Elagoz si dedica a una ricerca tra l’antropologico e il documentario a proposito del proprio rapporto con gli uomini. L’indagine raccoglie una svariata serie di conversazioni, video di presentazione, incontri che viene condivisa nella forma di lungometraggio e commentata in uno spettacolo intitolato Cock, Cock, Who’s There?, in cui emergono i temi del desiderio, del potere, della femminilità, della violenza sessuale.
Per rendere conto del proprio processo di transizione, invece, Elagoz produce Seek Bromance (2021), docu-fiction girata durante la pandemia in collaborazione col poeta e videomaker brasiliano Cade Monga. Il film, presente all’interno della rassegna veneziana, racconta l’intero corso di una relazione tra due persone transgender, la cui fine coincide cronologicamente con la separazione dell’artista dalla propria identità femminile. Il cinema e il teatro sono strumenti utili a raccogliere le diverse sfaccettature dell’identità personale, ma vengono anche utilizzati nella loro funzione più tradizionale, quella di raccontare. Stando alle sue parole, Samira Elagoz non pretende di educare il pubblico, né intende tratteggiare un ritratto oleografico della propria “categoria di appartenenza”, ma vuole narrare una storia vera, «in cui protagonisti trans sono complessi e tormentati, progressisti, ammirevoli, problematici, persone con cui ci possiamo identificare. Ribelli, amanti e creatori».

Tra gli aspetti più interessanti dell’oltre-la-scena della Biennale Teatro c’è il dialogo con gli artisti, scambio e ascolto di esperienze diverse. In otto (Natacha Belova, Daria Deflorian, Sam Elagoz, Tita Iacobelli, Caden Manson, Carlus Padrissa, Milo Rau, Antonio Tagliarini) siedono alla tavola rotonda moderata dal critico Andrea Porcheddu: Essere, non essere o essere altrove, in un ampliamento di prospettiva oltre la dicotomia amletica, nella sperimentazione della diversità.
Si è discusso di identità, del ruolo del teatro nella ricerca della stessa, di politica e attivismo, di dispositivi differenti, del senso del teatro oggi. Si tratta di temi sempre centrali quanto ampi, che, dunque, hanno lasciato la possibilità di esprimere posizioni, esperienze, prospettive specifiche, spesso differenti, talvolta convergenti. L’esito è quello di una molteplicità straordinaria, che rende uno spaccato vivo e mutevole della scena del nostro tempo.
Proviamo a renderne conto presentando ciascun artista tramite una citazione-lampo campionata dai rispettivi interventi, un passaggio che risulta particolarmente significativo per restituire con immediatezza il senso di quest’incontro.

Carlus Padrissa
Si alza, apre una bottiglietta, si versa dell’acqua in testa e la lancia verso il pubblico.
«Abbiamo fondato La Fura dels Baus in Spagna poco dopo la morte di Francisco Franco e la fine della dittatura. Era un momento in cui dovevamo inventarci il concetto di libertà. Eravamo come dei pesci che hanno voluto uscire dal loro ambiente e affrontare un passaggio di stato per andare altrove, cambiando la propria identità. D’altra parte siamo tutti nati dall’acqua, dai pesci. E se i pesci sono andati sulla terra, ora la sfida, per noi, è imparare a volare».

Sam Elagoz
«Il teatro mi ha permesso di trovare la mia identità. Ma, come diceva Walt Whitman, contengo moltitudini, mi contraddico. Voglio esercitare la mia ampiezza e complessità. Le persone trans sono artiste della vita. E la vita, in un certo senso, è una performance perché occorre reinventare un sè diverso ogni giorno».

Antonio Tagliarini
«In uno dei miei primi spettacoli entravo in scena e dicevo: “Sono confuso”. Dopo più di vent’anni lo confermo e lo rivendico: la confusione è un’occasione per riguardare sé stessi, scandagliarsi. Entrare in una crisi è un modo per essere mobili. Per me il teatro è stato il luogo della salvezza, lo spazio del possibile, dell’utopia».

Caden Manson
«Come gli hacker fanno crollare le strutture del web a forza di porre domande, noi mandiamo così tanti stimoli al pubblico per cercar di far crollare i suoi preconcetti. Siamo una compagnia queer. Queer è una domanda, è un disfacimento, col nostro lavoro abbiamo sempre cercato un certo grado di scivolosità, di essere la contraddizione. Per noi la cosa più importante è creare assieme al pubblico una realtà diversa, migliore, in cui vivere. Grazie alla tecnologia, mescoliamo i nostri corpi e abbracciamo il mondo mobile di noi stessi».

Natacha Belova
«Sono cresciuta a Tula, non lontano da Mosca, una città famosa per le sue fabbriche di armi nella Russia sovietica. Vivevamo in un posto isolato, dove però c’era anche un teatro, dove lavorava mio padre. Andavo dietro al palcoscenico, dove c’erano scenografie e polvere. Lì ho cominciato a costruire il mio racconto tra la realtà e l’immaginario: il teatro è un luogo in cui poter immaginare un mondo diverso, contiene una promessa di futuro».

Daria Deflorian
«Da giovane ero militante, credevo che la politica potesse cambiare il mondo. Però leggevo anche molta poesia. Ricordo quando Elsa Morante rispondeva a Patrizia Cavalli che le sue opere non avrebbero potuto cambiare il mondo… Per me, il teatro è stato mettere una “e” - una congiunzione - al posto di una “o” tra militanza e poesia, creando una zona ibrida fra due termini tradizionalmente opposti. È un modo per me di affrontare il mondo e le mie inadeguatezze, perché obbliga a uscire dallo spazio protetto della sala prove».

Tita Iacobelli
«Creo vite con le marionette, attraverso di loro posso uscire allo scoperto senza pudore. Il problema di questo mondo è esserci senza esserci. La marionetta, però, ci interpella, ci invita a siglare un tacito accordo: accettiamo questa illusione e capiamo che io sono a partire da ciò che l’altro è».

Milo Rau
«Io, completamente solo, non so chi sono. Quando entro in uno spazio teatrale, pur tra i tanti pensieri, lo capisco e capisco anche qualcosa degli altri. Il teatro è un’azione collettiva di significato: è creare, insieme, pratiche di contenuto. Bisogna coltivare esperienze umane per essere migliori. Per il futuro le speranze sono quelle dei primi anarchici e comunisti: che il potere non serva più. Per questo le tragedie reggono ancora nel nostro tempo, perché ogni tragedia è un tentativo di abolire la tragedia stessa».

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