Quello di “uccidere i maestri” è uno degli inviti ricorrenti all’interno di ogni laboratorio che si rispetti. La sollecitazione, di per sé, presuppone un desiderio e una mancanza, ma, se reiterata, anche un’inadempienza: si capisce che i tutor ambiscono a essere superati da chi invece, magari, vuole solo seguirne le orme. Ma c’è anche qualcuno che, caparbiamente, ci prova. È questa la tensione creativa che si avverte all’interno dei workshop in programma alla Biennale. Nel frattempo, il conferimento del Leone d’Argento a Sam Elagoz ha il valore di identificare possibili nuovi maestri e, forse, di fare strada a futuri allievi.
Matteo Valentini
La Biennale Teatro è un animale notturno; è il glamour dei tramonti all’Arsenale, degli spettacoli e degli spritz sulla ghiaia prima e dopo, delle accese discussioni sulla performatività degli artisti. Ma non solo. Di giorno, mentre Venezia pullula di turisti, molti giovani della Biennale College vivono a stretto contatto con gli artisti. Inguaribili curiosi, siamo andati a sbirciare cosa accade in alcuni workshop.
“Si è aperti a qualsiasi forma di diversità”: è quanto recita la presentazione del laboratorio di Milo Rau: una fucina in cui sono confluiti dieci tra attrici e attori, performer e interpreti. Per una settimana, si incontrano tutti i giorni in una delle sale del Teatro La Fenice. Il regista coi suoi allievi stringe un rapporto sinergico, un contatto in forma di gioco e lezione, promuovendo la conoscenza individuale di ogni componente del gruppo e toccando parti di ciascuna sensibilità. Si avverte l’esigenza di vivere la violenza nella partitura, andando oltre la costruzione scenica. Ogni singolo attore ha il proprio vissuto, trovare una connessione comune con cui rivelare la crudeltà in scena è l’obiettivo del laboratorio. Scrivere, ascoltarsi, modificare, riprovare: sono questi i consigli del maestro che, davanti ai suoi allievi in semicerchio, crea spazi di confronto e incontro, rapendo il loro sguardo e catturando la loro attenzione. Si progetta insieme, scrivendo sequenze che preparano a una complessità con cui ricostruire la scena. È un esercizio al racconto: l’urgenza di mostrare una ferocia, con irruenza. (V.B.)
La sala più grande della Biblioteca dell’ASAC – libri e scaffali rossi nascosti tra le calli dietro ai Giardini – è diventata in queste settimane l’aula del laboratorio di Caden Manson e Jemma Nelson, fondatori della storica compagnia newyorchese Big Art Group. Con loro, nove tra attori e aspiranti registi. Pensavo sarei andata a osservarli, e invece mi sono trovata anch’io a lavorare con loro, tra proiettori e nastro adesivo, computer e lenzuola: gli strumenti rispecchiano bene quella mattinata di strane combinazioni.
Le riprese di tre telecamere erano proiettate su altrettanti teli, appesi l’uno accanto all’altro; lo scotch serve per delimitare sul pavimento le zone incluse nel campo visivo degli obbiettivi. Quella era la nostra scacchiera: dentro il triangolo, si è ripresi; fuori, si è invisibili. L’obiettivo era imparare a sfruttare l’incastro dei tre video per creare, sugli schermi, degli individui nuovi, nati dall’incrocio, dalla combinazione, dal limite tra me e te. Mentre giochiamo con questi puzzle di corpi e impariamo a gestire distanze e vicinanze, Manson e Nelson parlano poco ma con precisione.
Partecipare a quel lavoro teatrale, in apparenza tanto semplice ed essenziale, è un modo efficace per entrare nel mondo di questa compagnia queer, che dal Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985) ha tratto non solo un modo di essere ma anche un modo di lavorare insieme: dunque, di rinegoziare, in gruppo, lo spazio condiviso e le relazioni, per dare vita a qualcosa di diverso, di non codificato, di non deciso a priori. (V.M.)
Si respira un’atmosfera rilassata e collaborativa nel workshop tenuto da Davide Carnevali, uno dei più importanti autori italiani in Europa e artista associato del Piccolo Teatro di Milano. Eppure, sottotraccia frizza e serpeggia l’aria dell’agone. Il bando Autori Under 40 della Biennale College Teatro ha selezionato nove drammaturghi che ora hanno la possibilità di trascorrere giorni intensivi con il maestro milanese. Carnevali segue lo sviluppo della scrittura, segnala accorgimenti, dispensa consigli al gruppo e tramite colloqui one-to-one. C’è una finalità precisa: domenica mattina ogni autore presenterà dieci minuti del proprio testo al cospetto dei Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte; chi sarà selezionato conquisterà la possibilità di sviluppare il proprio nucleo drammaturgico e proporlo nel corso della prossima edizione della Biennale Teatro 2023.
Al Teatrino di Palazzo Grassi, a pochi passi dal Canal Grande, un giovane autore sale sul palco e introduce il proprio lavoro: enuclea temi e significati dell’opera in divenire, spiega quali nuove idee siano sopraggiunte dall’inizio della masterclass. Poi assegna le parti ai colleghi e si dà avvio a una lettura scenica. Segue dibattito. La discussione è accesa e tutti commentano il testo: l’attenzione ai dispositivi e al linguaggio, la costruzione dei personaggi e del loro modo di parlare, lo sviluppo drammaturgico, la coerenza degli elementi in scena, la creazione di un’atmosfera, la percezione dello spettatore, l’interpretazione registica. Ogni aspetto deve essere dominato dall’autore e tutto passa al setaccio, implacabile quanto fondamentale per la buona riuscita del testo. Dopo un’ora e mezza ci si dà il cambio: è il turno di un altro autore. L’arena è aperta, appassionatamente “combattono”: chissà che da questo confronto escano nuove, interessanti voci della drammaturgia italiana. (A.M.)
Gli spettacoli in programmazione non esauriscono ciò che sta accadendo in città: sparse per Venezia, le masterclass della Biennale College sono mondi a sé in cui gruppi di giovani allievi si immergono temporaneamente nella ricerca di artisti affermati, esplorandone la “cassetta degli attrezzi” e sperimentando il loro modo di agire dietro le quinte.
Il Centro Teatrale di Ricerca della Giudecca, un complesso con mattoni a vista al riparo dalla folla dei turisti, ha ospitato il workshop di Carlus Padrissa / La Fura dels Baus. All’interno della sala prove – quasi totalmente buia per le tende nere che ne oscurano le finestre – il gruppo, arrivato al suo ultimo giorno, mette in scena l’esito del laboratorio. Nonostante il poco tempo trascorso insieme, qualcosa è avvenuto davvero in questa piccola comunità: forse proprio quell’evoluzione metaforica dell’uomo, da pesce preistorico a creatura alata, di cui aveva parlato in modo visionario Carlus Padrissa durante la Tavola rotonda sul tema Essere, non essere o essere altrove.
La Fura dels Baus è nata nel 1979 come gruppo di artisti di strada per poi ricreare, attraverso la sua lunga carriera, un teatro dai connotati ben definiti che si serve di dispositivi di grande impatto in grado di meravigliare lo spettatore attraverso varie tecniche, dal video mapping alla costruzione di scenografie imponenti. Infatti, per la compagnia, il teatro è sempre stato qualcosa di totalmente aderente alla vita, all’inizio addirittura un modo di sopravvivere per le strade ed essere liberi. Citando Padrissa: «il teatro mi ha insegnato la parola libertà. L’arte ci ridà la libertà e la voglia di vivere. Senza arte non è vita». Un tale bagaglio di esperienze e materiali è messo al servizio dei partecipanti del laboratorio per creare uno spettacolo in potenza.
La paura è il tema, declinato in varie accezioni: dal terrore della solitudine, alla miseria e alla morte. A partire dall’immagine simbolica del cetriolo di mare – piccolo animale che vive nelle profondità degli abissi in grado di dare in pasto ai predatori una parte del proprio corpo per sopravvivere –, l’operazione vuole essere una rinascita, uno slancio fisico e ideale che porta l’attore a librarsi nell’aria, verso l’alto. Grazie a un sistema di funi e carrucole, i performer “volano” attraverso la scena, per metà liberi e per metà incatenati, affidandosi totalmente alle mani dei compagni. A manovrare le corde sono infatti gli interpreti stessi, che si muovono sul palco come un unico organismo. Inizialmente, appesi a testa in giù, sembrano crisalidi da cui, a poco a poco, emergono immagini dal gusto punk e grottesco, sviluppate in modo corale. A turno, uno dei partecipanti, legato alle carrucole centrali, domina la scena e ne è insieme sopraffatto. Alla “ragazza-aracnide” avvolta da brandelli di ragnatela si sostituisce un prigioniero, il cui volto è video-mappato con l’immagine di un teschio, che viene beffato dai suoi torturatori e danza in modo folle fra i fili per elemosinare un po’ d’acqua.
La performance si conclude con un coro di cantanti che intona la celebre Bésame mucho, una Maša devastata dalla fatica del lavoro e degli anni che arriva allo sfinimento. Col gruppo radunato al centro, in un respiro comune, avviene l’esplosione finale: a sorpresa, con un colpo di teatro, le tende vengono strappate dalle finestre e tutta la stanza si inonda di luce. Intorno all’intelaiatura di questo spettacolo-embrione si intessono piccole improvvisazioni che modificano il meccanismo scenico e testano nuove vie e identità possibili. Trattandosi di uno studio, non esiste un “vero” pubblico: i pochi spettatori invitati si muovono all’interno della scena, sincronizzandosi con i movimenti degli attori e divenendo parte della danza. È un lavoro immersivo, un modo per esorcizzare il virus della paura e della pandemia o, più ampiamente, tutte le malattie possibili della nostra società, trovando la soluzione nell’arte come espressione di vita e libertà.
La storia di tre amanti – due persone e una telecamera – filmata senza sceneggiatura: sono le indicazioni di partenza fissate da Samira Elagoz, performer e videomaker finnico-egiziano di fama internazionale nonché Leone d’Argento della Biennale Teatro 2022, e dall’artista Cade Moga. La loro convivenza durante l’inizio della pandemia è un sodalizio, artistico e umano, in cui entrambi si fanno personaggi-registi di sé stessi per esplorare le proprie transizioni da femminile a maschile. «Voglio creare incontri più che ritratti», afferma Samira Elagoz durante la cerimonia del primo luglio, facendo riferimento a un modus operandi che coinvolge frequentemente sconosciuti, persone che non ha mai visto prima, a cui dà visibilità e le trasforma in “star” della loro storia. Le innumerevoli ore di riprese sono state successivamente montate dall’autore e hanno dato vita a Seek Bromance (2021), docu-fiction di quattro ore proiettata alla Biennale Teatro 2022 in prima italiana. La cinepresa – considerata da Elagoz «un’estensione del proprio corpo usata in modo coreografico» – non si limita a osservare in modo neutro ciò che accade ma diventa catalizzatore del processo: davanti a essa, il quotidiano si fa performativo in quanto agito, strutturalmente, a favore di un potenziale pubblico. Nel contesto di isolamento forzato, l’artista persegue così la necessità di trovare una controparte e un riconoscimento sociale del processo di transizione evocando, con il mezzo video, il suo interlocutore del futuro.
Anche Broke House di Caden Manson/Big Art Group, in programma pochi giorni prima, porta in scena qualcosa di simile (un cineasta intento a girare un ipotetico reality show, la cui azione non si limita a testimoniare ma modifica gli avvenimenti). Ma se là il meccanismo era osservato da una certa distanza e decostruito lungo il corso della performance, nel lavoro del Leone d’Argento la potenza del materiale autobiografico sembra schiacciare il patto di finzione fra i protagonisti messo a punto all’inizio, facendo invece prevalere l’aspetto documentario.
La presenza dell’artista che, seduto sul palcoscenico, guarda il film insieme al pubblico interrompendo la proiezione con brevi spiegazioni di ciò che sta per succedere sullo schermo, trasla immediatamente il prodotto artistico nel campo della testimonianza, quasi dandole toni da conferenza. È difficile resistere alla tentazione di leggervi un intento istruttivo, nonostante l’esemplarità sia un paradigma da cui Elagoz prende con forza le distanze nelle note dello spettacolo. Il dialogo fra fiction e realtà si delinea quindi ambiguo e sottile, in una negoziazione forse meno lampante di quella fra femminilità e mascolinità, rappresentando una dialettica altrettanto problematica ma lasciata implicita.
La transizione è invece ciò che i personaggi-interpreti di Samira e Cade mettono al centro della narrazione. Tramite i loro corpi, dichiaratamente al servizio della trasformazione, i due discutono, esplorano, tornano sui loro passi, cercano di leggere la “sceneggiatura” della propria vita nel momento stesso in cui viene scritta. L’esigenza di non essere definiti in difesa della propria fluidità dialoga con l’istinto insopprimibile a porre dei confini (per esempio fra diversi tipi di mascolinità o fra gli stili che il proprio sé-personaggio può adottare), limiti che esistono per essere superati e sperimentati al di là di essi.
A scandire questo percorso sono, in modo quasi rituale, le dosi di testosterone che Sam comincia a iniettarsi all’inizio della pandemia; la fenomenologia dei cambiamenti fisici e mentali che la protagonista attraversa è raccontata con dovizia di particolari, come un manuale d’uso o un diario di bordo. La mutazione viene celebrata come una festa che mette in risalto la bellezza potentissima dei due corpi filmati, volutamente estetizzata tramite il montaggio e le inquadrature. Attraverso giochi di ruolo e travestimenti esotici e alieni, Seeeking Bromance esibisce la vanità, la volontà di sentirsi seducenti, le difficoltà di una relazione, tentando di attraversare i confini fra maschile e femminile al fine di scegliere consapevolmente chi vogliamo essere.
Si tratta, per citare la motivazione di Ricci e Forte per l’assegnazione del Leone d’Argento, di «un viaggio intimo e poetico, ma al tempo stesso ironico e perturbante, intorno ai clichés e alle questioni riguardanti non solo l'auto-rappresentazione nei media, i comportamenti del maschio nei suoi tentativi di seduzione in un rapporto di dominio e/o di sottomissione, ma anche dello strumento-corpo come campo di un’imprescindibile e necessaria sperimentazione artistica».