Così cantava Massimo Ranieri incarnando l’ultima speranza di un innamorato che con un gesto passionale tenta di ritardare un addio, lo stesso che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini portano sul palco, in un omaggio alle scene calcate insieme, attraverso la storia dei felliniani Ginger e Fred. Racconti e ricordi di storie concluse, di amori sfioriti e performance precedenti, come spettri, invadono i teatri di ombre e memoria. Si mescolano in ambienti surreali, luoghi onirici abitati da fantasmi del passato o del futuro; oppure in spazi tangibili, concreti, visivamente eccessivi, che possono cambiare o aggiungere significato agli spettacoli. Scenografie da collezionare come in un’esposizione di quadri, immagini che rimarranno impresse nello spettatore della Biennale Teatro 2022.
Francesca Rigato
Quattro sentinelle si incontrano sugli spalti del castello di Elsinore per il cambio della guardia. Dopo le formule di riconoscimento e i saluti iniziali, una di loro chiede: «What, has this thing appeared again tonight?». Il breve scambio di battute apre il primo atto di Amleto, dove “this thing” si riferisce al fantasma del defunto re di Danimarca, padre del protagonista, che infesta il luogo dove è stato ucciso. Lo spettro, suggerisce Shakespeare con “again”, assume un carattere ricorsivo: è qualcosa che ritorna nei vecchi spazi di vita e riemerge nelle coscienze di chi gli è sopravvissuto. Assomiglia, in questo, a un ricordo.
«Chi cavolo è adesso in cucina con me?», si chiede indispettita Daria Deflorian in Sovrimpressioni, mentre rievoca quelle sferzate di lancinante tristezza che colpiscono il suo personaggio nei momenti di quiete apparente. Il titolo fa intendere l’imperfetta sovrapposizione dei modelli messa in scena durante lo spettacolo: Deflorian e Tagliarini rimandano a Pippo Botticella e Amalia Bonetti che a loro volta, in Ginger e Fred di Fellini, imitano Fred Astaire e Ginger Rogers. In questione c’è anche il processo di rielaborazione memoriale che i due artisti affrontano parlando del proprio vissuto. «Siamo dei fantasmi che arrivano dal buio e nel buio se ne vanno», afferma Deflorian, connotando una condizione non soltanto dell’essere umano, ma propriamente dell’attore.
Fin dalle sue origini rituali, il teatro è il luogo in cui incontrare l’altrove: qualcosa magari di materialmente assente, ma infestante. È lo spazio del dialogo con i morti. Le angosce, le ferite e le crisi personali, così come le amnesie e le censure collettive si materializzano sulla scena e costringono chi le guarda a farci i conti, almeno fino al termine del buio in sala. È quello che accade ne La Reprise di Milo Rau, in cui viene rappresentata la tortura e l’uccisione di Ihsane Jarfi da parte di un gruppo di coetanei conosciuti di fronte a un locale gay di Liegi. Il regista svizzero utilizza questo avvenimento per interrogarsi sulla natura esplosiva del crimine e dell’odio che, pur accuratamente occultati, brulicano alla base del nostro mondo. Lo spettro, così, non solo ritorna, ma inestricabilmente permane. Questo aspetto si manifesta anche nella scena finale di Brief Interviews with Hideous Men di Yana Ross, con quattro anziani maldicenti che sul finale arrancano lungo il patio immacolato della villetta allestita in scena: in loro si riassume la presenza dell’orrore radicata all’interno della società statunitense.
Un’altra prerogativa del fantasma è il tormento dovuto a una questione lasciata in sospeso, in particolare connesso all’inumazione mancata. Un esempio è la storia di Polidoro raccontata nell’Eneide. Mentre strappa alcune frasche per adornare l’altare appena eretto, Enea si accorge che da esse cola del sangue e sente una voce che lo implora di fermarsi: è, appunto, Polidoro, principe troiano che, mentre portava in salvo il tesoro della sua città in fiamme, è stato ingannato, derubato e ucciso. Il suo cadavere è rimasto insepolto e la sua anima non è in grado di trovare riposo. Il desiderio di sciogliere il rapporto irrisolto con un corpo in sospeso è il vettore che anima anche Seek Bromance di Samira Elagoz. Nello spettacolo si avverte una tensione trasformativa accompagnata da un’insoddisfazione esplicita per la propria condizione: le iniezioni di testosterone che scorrono sullo schermo posto davanti alla platea sono l’invocazione a un corpo futuro, diverso sia da quello filmato che dall’artista seduto in scena. Allo stesso tempo, la concentrazione di Elagoz di fronte al piccolo laptop che trasmette il suo film fa intendere un desiderio di segno diametralmente opposto, forse connesso alla nostalgia, che impedisce l’abbandono di una scoria che sarebbe giusto, coerente o utile dimenticare.
È improbabile che il teatro abbia la capacità di rimediare ai tormenti di un individuo o di indicare a una società la strada da seguire verso le leopardiane «magnifiche sorti e progressive». Piuttosto, lo spettatore instaura con esso un dialogo eternamente inaugurato e differito, molto simile a quello in corso coi suoi spettri.
Se volessimo fare un gioco, e decidessimo di portarci a casa dei “quadri” da questa Biennale Teatro, finiremmo per allineare sulla parete della nostra sala immagini molto diverse tra loro. Come gli spazi hanno parlato delle storie raccontate? Giunti quasi alla fine di questi dieci giorni, crediamo abbia un senso dare centralità agli scenografi, che paradossalmente rimangono spesso lontani dalla luce della ribalta.
Partiamo da chi si è discostato di più dall’immaginario tradizionale: gli spettacoli dei due Leoni della Biennale Teatro 2022 presentano sul palco un solo grande schermo, che crea spazi apparentemente simili. Entrambi sfruttano il video per metterlo in connessione con l’intero teatro. Samira Elagoz è in scena: non interagisce con il pubblico, non si volta verso lo schermo, ma da seduto commenta il filmato e crea una narrazione parallela, nei fatti altrettanto bidimensionale. Christiane Jatahy e Thomas Walgrave, suo collaboratore artistico, creano un dialogo tra schermo e platea, tra attori presenti sul palco e attori in video, puntando a un maggior coinvolgimento emotivo e a un riempimento totale dello spazio.
È invece Caden Manson, anche regista dello spettacolo, a firmare la costruzione scenica di Broke House. Tutta giocata sull’accostamento e sull’accumulo – di stanze, di punti di vista e di colori sgargianti – l’immagine che ci resta in mente è un fedele pendant dei dialoghi senza tregua, oppure della musica sempre volutamente troppo forte. L’estetica dell’eccesso (o del kitsch) è del resto la chiave con cui la compagnia ama presentarsi: come spiegato da Manson durante la tavola rotonda, fornire al pubblico un numero esagerato di informazioni e immagini significa imporgli la necessità di una scelta. Che tutto questo sia connotato anche socialmente è innegabile: il caos entropico del palco, di quella casa “rotta” e in disallestimento, rispecchia la storia di uno sfratto, o di un inganno subito, una storia continuamente percorsa dal mito di una fuga che però non avviene mai. Al contrario, le superfici bianche, la piscina, i rombi delle piastrelle o le pareti trasparenti di un’architettura modernista riflettono il mondo ricco, bianco e maschio delle Brevi interviste dirette da Yana Ross. Nel loro lavoro scenico, Karolien de Schepper e Christophe Engles hanno forse in mente la pittura di David Hockney: la scelta è certamente riuscita, ma probabilmente un po’ scontata, dato che l’artista inglese viene nominato in quasi tutte le quarte di copertina delle edizioni del libro di Foster Wallace.
Linee pulite e orizzontali dominano la scena di Una foresta di Olmo Missaglia. Justine Bougerol, scenografa che cura anche l'allestimento dello spettacolo di Peeping Tom, organizza lo spazio in modo estremamente razionale, su un palco quasi spoglio. La foresta è un deserto colmo delle incertezze e inadeguatezze di una generazione. Solo pochi elementi concreti: un grande fondale su cui viene proiettato un quadro e una panchina con tre sedute, come alla fermata di un bus. La scena è costruita sull’orizzontalità: quella che effettivamente è tracciata dai binari su cui si muovono i personaggi, sempre frontali rispetto al pubblico. Molti oggetti, però, vengono portati sul palco nel tempo: un filo di lana verde, o una schiera di caramelle gommose che a un certo punto segnano una via, come i sassolini di Pollicino, sono brevi accensioni di colore che provano a suggerire la terza dimensione o, magari, una prospettiva.
All’accumulo e alla moltiplicazione di fuochi consentiti dai tanti schermi-specchi, fa da contraltare delicato l’efficace semplicità delle scene di LOCO, cui ha lavorato Natacha Belova. Le luci di Christian Halkin sono però essenziali in uno spettacolo che sa usare sapientemente il buio: attorno a un letto – il fondamentale oggetto di scena da cui, tramite inaspettate metamorfosi, tutto prende vita – Belova e Halkin hanno saputo creare un’atmosfera onirica e calda, capace di riempirsi di sogni e, al contempo, di frangersi davanti allo smascheramento delle illusioni. Forse anche la disabitudine a questa essenzialità – che però sa accendere suggestioni improvvise, da un fluttuante pesce rosso a un gigantesca luna di carta – è ciò che rende lo spettacolo così commovente agli occhi del pubblico.
In questi spazi sono nate storie: in una casa scoperchiata una famiglia ha perso tutto, ai bordi di una piscina lucida si vedono specchiati i peggiori difetti, in un sogno senza fondale si crede alle illusioni. È anche lo spazio che dà corpo alla parola.
«Ti ricordi…? Odio iniziare le frasi con “ti ricordi”», esordisce Daria Deflorian all’inizio di Sovrimpressioni. Eppure, l’intero spettacolo è un attraversamento della memoria tramite piccoli aneddoti e minute riflessioni. Cifra riconoscibilissima della compagnia Deflorian/Tagliarini, essa è ancora più centrale in questo lavoro presentato nel 2021 in cui, dopo anni di collaborazioni condivise con altri, gli artisti riflettono sul loro rapporto. Ispirandosi a Ginger e Fred, film di Fellini del 1986 dove due ballerini, ormai invecchiati, sono chiamati a esibirsi in un programma televisivo scadente, la coppia ha dato vita a una trilogia dell’addio, di cui fanno parte Avremo ancora l’occasione di ballare insieme e il documentario Siamo qui per provare.
Nell’opera in scena alla Biennale Teatro 2022, il cui titolo è preso in prestito da una raccolta poetica di Andrea Zanzotto, i rimandi si incastonano l’uno nell’altro: i personaggi-attori Daria e Antonio si sovrappongono ad Amelia e Pippo della pellicola felliniana, a loro volta parodici alter ego di Ginger Rogers e Fred Astaire, in un gioco di corrispondenze evidenziato dallo specchio che divide a metà il lungo tavolo al centro del palco ai cui estremi siedono gli interpreti. Il dialogo fra loro avviene a distanza, senza guardarsi in faccia, ciascuno rivolto al proprio riflesso. Una parrucchiera e una truccatrice (interpretate da Cecilia Bertozzi e Chiara Boitani) si muovono intorno ai performer e, con studiata delicatezza, li preparano a un ipotetico ingresso in scena.
Gli spettatori sono divisi in due gruppi che si fronteggiano lungo gli altri lati del tavolo e girano lo sguardo dall’uno all’altro della coppia seguendo quello che Daria chiama «pensiero-stella»: «penso e torno indietro, penso a torno indietro», rievocazioni e temi ricorrenti che sembrano rimbalzare contro la superficie liscia di uno specchio e ritornare al punto di partenza senza riuscire a svilupparsi. Come Narciso affacciato alla fonte, gli attori parlano alla propria immagine, rapiti dalla trappola del passato e da quello che sono diventati, tentando di rivolgere la parola all’altro ma in realtà prigionieri di una consapevole incomunicabilità.
La lucida precisione e la tecnica impeccabile, in dialogo con le vicende di Ginger e Fred, riescono a sublimare (o forse a tradire) il lato più sanguigno della rabbia, della delusione, dell’evoluzione di un rapporto. Le battute sono pronunciate in modo leggero e pacato, senza sottofondi musicali: ci si rende conto del silenzio denso della sala solo quando Antonio – usando il suo cellulare – fa partire Stayin' Alive dei Bee Gees. Le note della canzone giocano ironicamente con l’atmosfera che si respira in teatro e, quando si spengono, aprono la strada a inaspettati abissi di tristezza nella leggerezza dei discorsi. «Speriamo che nella mia vita succeda ancora qualcosa», dice l’attrice, rievocando un episodio su Greta Garbo e finendo – come sempre – a parlare di sé stessa, in un gioco di sovrimpressioni richiamato dal titolo.
Ispirandosi alla parabola artistica dei personaggi di Fellini, la compagnia mette in luce le proprie fragilità e il trascorrere degli anni, reso gradualmente visibile dal trucco e dai costumi: i capelli di Tagliarini sono progressivamente tinti di bianco e Deflorian indossa una parrucca grigia. Quando gli attori sono pronti e lo specchio che li separava viene trasportato fuori scena, i due finalmente si guardano con intensità. Antonio – che aveva rievocato l’incidente a causa del quale è stato costretto ad abbandonare la carriera da danzatore – comincia a ballare dapprima esitante, poi con più forza, mostrandoci una piccola gemma di autentico dolore impossibile da scalfire, nonostante il tempo trascorso; Daria lo guarda, sorseggiando del whisky. Forse, come nel mito greco, aver afferrato l’immagine al di là dello specchio significherà la fine di qualcosa ma gli antichi insegnano che il passato può trasmutarsi, in un bagliore giallo di narcisi, in qualcos’altro.