Leone d’oro alla carriera 2017, la coreografa americana Lucinda Childs inaugura il Festival il 23 giugno (Teatro alle Tese) con tre classici del suo repertorio: Dance, titolo manifesto del minimalismo astratto di cui è pioniera e destinato a influenzare generazioni di danzatori. Lo spettacolo, frutto della collaborazione della Childs con Sol LeWitt e Philip Glass, verrà presentato per la prima volta in Italia con il film-décor in rigoroso bianco e nero che l’artista americano LeWitt aveva creato nel 1979. Gli altri due titoli della Childs saranno adattati allo spazio all’aperto di Campo S. Agnese: Katema e Dance II, originariamente due assoli che la Childs ha sviluppato in lavori d’ensemble.
Un altro trittico di spettacoli ha per protagonista Alessandro Sciarroni, performer e coreografo fra i più rivoluzionari della scena europea, interessato a tutte quelle pratiche del corpo – discipline sportive, arti circensi, mestieri – da cui parte per arrivare alla costruzione coreografica, spesso un atto di resistenza fisica in scena. A Venezia saranno in scena Chroma (24 giugno, Teatro alle Tese), in prima per l’Italia dopo il debutto a Parigi, Aurora (25 giugno, Teatro alle Tese) e Folk-s (25 giugno, Teatro alle Tese).
Arriva per la prima volta in Italia Clara Furey, nata a Parigi ma di origine canadese, un’artista che lavora a progetti che incrociano coreografia, musica e performance. Untied Tales (24 giugno, Sale d’Armi), in prima nazionale e realizzato con il danzatore e coreografo slovacco Peter Jasko, indaga il rapporto tra finzione e realtà, ma anche la coesistenza di due linguaggi artistici che si incontrano senza annullarsi.
Un ritorno alla Biennale è quello di Louise Lecavalier, per 18 anni formidabile interprete dei La La La Human Steps: questa volta è a Venezia nel duplice ruolo di coreografa e danzatrice con So Blue (24 giugno, Teatro Piccolo Arsenale), interpretato con Frédéric Tavernini. Al centro di questo vorticoso duo è il corpo “in perpetua ricerca, veloce come un pensiero, che trasgredisce i propri limiti per sorpassare se stesso; il corpo che muta in respiro, energia, luce… Il corpo che traccia il suo percorso, lotta, si arrende, rimbalza e svanisce nello spazio” (L. Lecavalier).
Negli spettacoli della belga Lisbeth Gruwez, formata al classico e poi con la compagnia di Jan Fabre, quindi cofondatrice del gruppo Voetwolk, suono e movimento sono interdipendenti. In We’re pretty fuckin’ far from okay (25 giugno, Tese dei Soppalchi), in prima per l’Italia, la Gruwez mette a fuoco l’ingranaggio della paura fisiologica e psicologica, facendo del corpo una cassa di risonanza delle nostre emozioni più primitive e universali.
Prova esemplare della danza di Marie Chouinard, dove ogni gesto è un pensiero, è il recentissimo Soft virtuosity, still humid, on the edge (27 giugno, Teatro alle Tese) interpretato dalla sua compagnia, un excursus sulle molte forme del camminare (affannoso, zoppicante, sfrenato, divertente, sulle punte o mezze punte…), un viaggio attraverso il palcoscenico e attraverso il mondo. Considerata una promessa della danza olandese, attiva con Elisa Monte Co., Galili Dance e Charleroi Dance prima di approdare alla coreografia fondando la WArdWaRD nel 2000, Ann Van den Broek presenta The Black Piece (26 giugno, Teatro Piccolo Arsenale). Lo spettacolo mette in scena i 5 performer immergendoli in una quasi totale oscurità, inframezzata dai bagliori che la stessa Van den Broek orchestra per segnalare frammenti, presenze, prospettive, lasciando che lo spazio prende forma attraverso i suoni che lo spettatore percepisce.
Fra le figure più originali e che maggiormente stanno catalizzando l’attenzione della stampa internazionale, Dana Michel, afroamericana di Ottawa, Leone d’argento 2017, è per la prima volta a Venezia e alla Biennale Danza. Dana Michel è un’artista che fa della propria autobiografia motivo di ricerca:“lavorare attingendo alla propria esperienza personale è la strada migliore per raggiungere un’auto-consapevolezza e per creare una significativa connessione con gli altri”, dichiara. I suoi lavori si caratterizzano per una sorta di “bricolage post culturale” dove momenti live, manipolazione di oggetti, frammenti di storia personale, desideri, preoccupazioni del momento creano un centrifugato di esperienza empatico tra l’artista e gli spettatori. Come in Yellow Towel (27 giugno, Tese dei Soppalchi, 19.30), in prima italiana, in cui la Michel stigmatizza e capovolge gli stereotipi della cultura black.
Le radici meticce di Daina Ashbee (nata nel 1990 da padre nativo americano e madre olandese) influenzano il suo linguaggio coreografico, che attinge sia alla danza contemporanea che alla tradizione, affrontando tematiche dal forte impatto sociale, spesso legate al corpo femminile, con cui rompe tabù secolari. “L’arte della danza – afferma - mi avvicina al mio corpo, alla consapevolezza dei miei pensieri e dei processi”. Alla Biennale presenta in prima italiana Unrelated (29 giugno, Teatro alle Tese) e When the ice melt, will we drink the water? (29 giugno, Tese dei Soppalchi) in prima europea.
Sulla scena dagli anni ’70, Benoît Lachambre ha collaborato con molti artisti – Meg Stuart, Boris Charmatz, Sasha Waltz, Luoise Lecavalier, Marie Chouinard – e ha ricevuto commissioni dai maggiori ensemble di danza, fra cui il Cullberg Ballet. Lifeguarde (30 giugno, Sale d’Armi, 17.30) debutta in prima italiana per la Biennale: è uno spettacolo che mira a creare uno spazio intimo dove lo spettatore gioca un ruolo importante, un’azione performativa che cambia a seconda dello spazio e degli spettatori.
A un’altra figura importante della danza contemporanea, Xavier Le Roy, la Biennale riserva lo spazio di un importante assolo. È con Le Roy, campione dell’anti-coreografia europea, che la danza si fa spazio mentale, filosofico, ricerca scientifica. Frutto di un pensiero radicale che rifiuta il teatro di rappresentazione, l’anti-coreografia trova espressione in operazioni concettuali o si risolve in gesti ironici dove tutto è danza. Come accade nel lavoro solista Self Unfinished.
Su tutt’altro versante rispetto a Leroy opera Robyn Orlin, artista fra le più controverse e provocatorie, che ha ridisegnato la coreografia e l'arte performativa del Sud Africa, il suo palcoscenico è anche un luogo dove spesso gli universi dei bianchi e dei neri con i rispettivi stereotipi collidono, come nel suo ultimo spettacolo, una sorta di “cabaret politico”, And so you see… our honorable blue sky and ever enduring sun… can only be consumed slice by slice… (1 luglio, Tese dei Soppalchi) presentato in prima italiana.
Conclude l’edizione 2017 della Biennale Danza uno spettacolo ricco di echi: Gustavia (1 luglio, Teatro alle Tese), frutto della complicità tra Mathilde Monnier, capofila della danza francese, e La Ribot, performer madrilena trapiantata a Ginevra, nota per la serie dei “Distinguished Pieces”. Gustavia è un unico personaggio femminile portato in scena da due donne, un ritratto bifronte, giocato sui toni della comicità e dell’ironia.