Josef Nadj con otto danzatori provenienti da diversi Paesi dell’Africa; Hervé Koubi, coreografo franco-algerino con la sua compagnia multietnica e la vocalist ebreo-egiziana Natacha Atlas; Marco D’Agostin dall’Italia; le statunitensi Pam Tanowitz - danzatrice e coreografa - e Simone Dinnerstein, pianista, accompagnate dalla Pam Tanowitz Dance; Olivier de Sagazan, artista francese di Brazaville; la danzatrice basca Iratxe Ansa che con l’italiano Igor Bacovich forma Metamorphosis, di stanza a Madrid; Rone, campione della scena elettronica francese, insieme al collettivo artistico (La)Horde, con Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel da un anno alla testa del Ballet National de Marseille; Oona Doherty dall’Irlanda del Nord e Germaine Acogny dal Senegal. Sono gli artisti di una scena dal vivo senza confini, ricca delle forme e dei contenuti del mondo. Radicals, secondo McGregor, espressione di una danza dal segno incisivo che, attraversata dalle urgenze del mondo, parla al nostro tempo.
Sono Djino Alolo Sabin, Timothè Ballo, Abdel Kader Diop, Aïpeur Foundou, Bi Jean Ronsard Irié, Jean-Paul Mehansio, Marius Sawadogo, Boukson Séré - provenienti da Congo, Costa d’Avorio, Senegal, Mali, Burkina Faso: otto danzatori che con la ricchezza del loro diverso retroterra – fatto di danze, wrestling, rap, danza classica, discipline acrobatiche – innervano il “teatro del movimento” di Josef Nadj con nuova linfa. Tutto è materia di elaborazione per l’artista ungherese, una delle più sfaccettate personalità artistiche operanti sulla scena internazionale, che con il suo nuovo spettacolo, Omma, racconta una storia di condivisione e di trasmissione invitandoci ad “andare oltre il nostro sguardo per vedere meglio dentro noi stessi”.
Attinge invece al mosaico delle antiche culture mediterranee delle sue radici algerine Hervé Koubi: riti, melodie, storie, tradizioni che mixa in maniera spettacolare con il linguaggio della breakdance e dell’hip hop permeato dall’energia sensuale dei suoi 15 danzatori. Il ritorno alle origini coniugato con i nuovi saperi del corpo in un misto di appartenenza e sradicamento ispira anche il nuovo lavoro di Koubi, Odyssey. Il nuovo spettacolo celebra la femminilità nell’incontro con il maschile attraverso la partitura dei movimenti dei danzatori che si incontra con la partitura fusionale di suoni di Natacha Atlas, vocalist ebreo-egiziana della scena internazionale tra echi panetnici e il ritmo dell’elettronica europea.
Fra i nomi nuovi della scena italiana che come coreografo calca dal 2010, Marco D’Agostin è da allora presente con i suoi lavori in tutta Europa e nel 2018 ha vinto un premio Ubu come miglior performer under 35. Già presente alla scorsa Biennale Danza, D’Agostin ritorna quest’anno con Best Regards, un assolo nello spirito graffiante di Nigel Charnock cui è dedicato. Una lettera impossibile “a qualcuno che non risponderà mai”: al creatore, prematuramente scomparso, di veri e propri one-man show che esorbitano dai limiti della performance, in un impetuoso e sfrontato impasto di teatro, danza, cabaret politico.
Il rigore formale maturato da una lunga e costante riflessione sulla danza fa di Pam Tanowitz una delle massime coreografe del nuovo millennio, in repertorio nelle maggiori compagnie e per la prima volta in Italia alla Biennale. Con una conoscenza della danza a 360 gradi, che da Balanchine arriva a Cunningham via Viola Farber, la Tanowitz usa tutti gli strumenti che la danza passata e presente le offre per smontarne i meccanismi e ricrearli sotto nuove forme. New Work for Goldberg Variations – in prima europea per Venezia - nasce in tandem con la pianista Simone Dinnerstein: un nuovo lavoro su un pezzo che è stato terreno di sfida per musicisti e coreografi e dove ora le limpide architetture dei danzatori sembrano illuminare di nuova luce quel distillato di emozioni che sono le Variazioni Goldberg di Bach.
La danza come oggetto scenico è l’originale approccio del pittore, scultore, artista della performance Olivier de Sagazan. Del 2001 è Transfiguration – dove il corpo dell’artista trasfigura sotto strati di argilla - opera estrema in continua espansione che incrocia danza teatro e arti plastiche, rappresentata oltre 300 volte in 20 Paesi diversi e con oltre 6 milioni di visualizzazioni su YouTube. L’evoluzione dell’opera nell’ultima decade vede accentuarsi l’aspetto performativo: de Sagazan cambia prospettiva distribuendo la performance del funzionario in giacca e cravatta che si sfigura in una creatura mostruosa a sei danzatori. Nasce così un nuovo spettacolo, dove “l'effetto di gruppo, insieme al loro modo istintivo di muoversi conferisce a questi corpi mascherati una stranezza e una forza che non avrei mai immaginato. Vi ho visto l’embrione di dipinti impressionanti e nel tempo mi è diventato ovvio che avevo qualcosa da fare, come un pittore con i suoi colori e i suoi pennelli. Dipingere con corpi ricoperti di fango e che hanno l'aspetto di sculture” (O. de Sagazan). Di residenza in residenza diventa La Messe de l’Âne, che si rifà alla medievale festa dei folli, presentato in prima assoluta a Venezia.
È un “nudo d’artista” che si svela progressivamente agli occhi dello spettatore il lavoro firmato dalla basca Iratxe Ansa – artista indipendente dopo la scuola di Cranko e l’attività con le compagnie di Forsythe, Kylián, Duato, Ek, Naharin, McGregor, Pite – e dall’italiano Igor Bacovich, formato all’Accademia di Danza di Roma e poi al Codarts di Rotterdam. Al desnudo è un laboratorio dinamico che prende il via da un classico duetto per poi crescere in un limpido processo di decostruzione che mette a nudo trama e meccanismi della creazione nel suo stesso farsi. L’originale duo si amalgama alle note del Concerto n. 2 per violino di Philip Glass e delle musiche di Johan Wieslander, e alle luci e immagini, che sovrappongono live e pre-registrato, di Danilo Moroni.
Radicale è il grido di battaglia di Room with a View, firmato in coppia da Rone e (La)Horde. È il grido di rabbia e sofferenza di una generazione che al senso di catastrofe oppone la forza del gruppo con le sue lotte e i suoi conflitti, la violenza ma anche la vitalità della ribellione. Uno spettacolo travolgente e adrenalinico con corpi che volano, scossi dal pulsare dei suoni scolpiti dal compositore e producer Rone, attorno a cui si addensa l’orda di ravers, sopravvissuti al collasso della civiltà. Al centro una visione politica della danza che mette in primo piano forme coreografiche della rivolta popolare - dai rave al ballo tradizionale ai jumpstyle di internet – nutrita del pensiero di Alain Damasio, scrittore di fantascienza, e la sua guerra dell’immaginario.
Una “danza fuori dalle regole” nei temi e nei modi è quella di Oona Doherty, nome nuovo della danza europea e Leone d’Argento di questa edizione del Festival, a Venezia con Hard to be Soft – A Belfast Prayer. Non ortodossa è la scelta di mettere in scena lo spaccato di una comunità, quella della sua infanzia a Belfast, con i suoi orizzonti limitati da imposizioni culturali, sociali, religiose. Delle classi lavoratrici, praticamente assenti dai palcoscenici della danza, la Doherty coglie la dimensione quotidiana, la loro violenza e vulnerabilità, i tic, gli stereotipi e i vizi, ma anche il coraggio, la forza e l’energia.
Somewhere at the Beginning è l’assolo in cui Germaine Acogny, pioniera della danza contemporanea africana e Leone d’Oro alla carriera del Festival, fa i conti con il proprio passato, quelle radici che sono il punto di partenza di tutta la nostra vita, e che si incarnano nelle figure arcaiche che l’accompagnano. Partita dall’Africa, esule in Europa e poi di ritorno alla sua terra d’origine, lo spettacolo della Acogny è anche un dialogo tra l’Occidente e il continente africano, sulla ricerca di identità che non è mai qualcosa di dato o di acquisito. Il regista franco-tedesco Mikaël Serre sceglie di rendere questo gioco della memoria attraverso l’intimità, evitando le semplificazioni dell’ideologia.