Nel 1926, quando incontra André Breton a Parigi per la prima volta, Léona Delcourt ha ventiquattro anni e ha scelto di chiamarsi Nadja – l’inizio della parola russa nadežda, speranza. Nell’omonimo romanzo autobiografico Nadja pubblicato nel 1928, Breton la descrive come sospesa tra la più affascinante creatività e la più inquietante follia. Nel corso dell’anno successivo al loro primo incontro, prima del suo ricovero in manicomio nel 1927, Nadja recapita a Breton ventisette lettere in cui si abbandona a ricordi, pensieri d’amore, rimproveri, scarabocchi e disegni, su cui imprime lo stampo delle sue labbra con un rossetto rosso. Per quanto appaiano come le più caotiche elucubrazioni, questi messaggi sono la traccia verbo-visuale di una sensibilità perfettamente in linea con il Surrealismo, e sembrano capaci di coniugare l’automatismo psichico proposto dall’avanguardia con un simbolismo personale difficilmente decifrabile. Tra questi segni si distingue un fiore magico, come l’intera composizione: Nadja lo chiama “la fleur des amants” e, disegnando i suoi petali come fossero coppie di sguardi, lo ripropone in molti dei suoi lavori a sigillo del suo amore. In una delle lettere recapitate a Breton, ad esempio, il fiore si trova tra le fauci di un serpente e, sbocciando accanto alla scritta “l’enchantment de Nadja”, dichiara che le forze occulte da cui è alimentato vanno ben oltre la follia che il mondo moderno attribuisce alla sua autrice.
Stefano Mudu