Il cambio del tempo
Nella grande confusione che sembra dominare l’universo cinematografico in perenne e crescente trasformazione, una delle poche certezze sembra riguardare il fatto che l’oggetto della nostra passione non si presenta più ai nostri occhi di spettatori innamorati con le stesse fattezze di un tempo. Venute meno le certezze che per più di un secolo hanno accompagnato e sorretto le abitudini del pubblico di tutto il mondo, oggi i film si offrono a noi in forme e durate che hanno ben poco a che fare con le consuetudini maturate nel tempo: una lunghezza compresa fra i canonici novanta e centoventi minuti, una configurazione che (con poche eccezioni) riposava sulle convenzioni di genere, all’interno delle quali rientravano a ben vedere anche i cosiddetti film d’autore come un genere a se stante.
È come se l’universo cinematografico fosse esploso, sotto la spinta di una forza espansiva inarrestabile che, mettendo fine a una stabilità ingiustamente ritenuta immutabile, stia dando vita a una nuova, oscillante configurazione entro la quale coesistono, in precario equilibrio, realtà diverse e opposte. Da un lato, i film si fanno sempre più piccoli - brevi o brevissimi - per adattarsi ai nuovi contenitori: non più le sale cinematografiche tradizionali, ma neanche gli schermi domestici attraverso i quali si accede ai contenuti degli streamers, ma quelli che si definiscono i social: Instagram, ma ancor più TikTok e soprattutto YouTube, che recenti indagini di mercato segnalano come la piattaforma più frequentata dai giovani e dai consumatori di video di qualunque natura e durata. La conferma proviene indirettamente anche dai racconti di un produttore cinese, incontrato in uno dei tanti utili viaggi esplorativi che si fanno ogni anno, dai quali si evince che i maggiori profitti delle case di produzione in attività fra Pechino e Hong Kong provengano ormai dalla realizzazioni di brevissimi cortometraggi (di durata limitata e budget ridotti), offerti su Internet per pochi centesimi alle moltitudini di persone che giornalmente trascorrono lunghi periodi di tempo negli spostamenti casa-lavoro con gli occhi incollati agli schermi dei cellulari.
Se questi micro-film - che non si vedranno probabilmente mai in un festival di cinema - rappresentano la novità più significativa e insospettata dell’evoluzione della specie, all’altro capo della trasformazione assistiamo invece all’espansione della durata e delle convenzioni narrative tradizionali. Di quest’ultima variazione morfologica avevamo già iniziato a prendere coscienza, perché non sfugge a nessuno che i film si stiano facendo sempre più lunghi, raggiungendo e talvolta superando le tre ore. Gli esempi di questa vera e propria escalation temporale sono sempre più numerosi, al punto da indurre a ritenere che non siamo più di fronte a semplici eccezioni (peraltro sempre esistite: si pensi a Via col vento e al Giorno più lungo, per fare solo due esempi), ma all’avvio di un processo destinato a imporre un nuovo parametro spettacolare.
In questa sede non è tanto interessante discutere se tutto ciò sia la conseguenza dell’influenza stilistica e narrativa esercitata dalle serie televisive, massicciamente proposte dagli streamers e altrettanto massicciamente consumate dagli spettatori domestici, o di un tentativo da parte dei produttori cinematografici di contrastarne la concorrenza tentando un disperato ricorso alle stesse armi. Interessa invece rilevare come un numero crescente di autori cinematografici si lascino tentare – non tanto o non solo per ragioni economiche – dalle lusinghe che la sperimentazione di un nuovo formato offre alle loro possibilità creative. Il programma dell’81. Mostra del Cinema di Venezia offre significativi esempi di questo doppio movimento espansivo, ospitando numerosi film che eccedono più o meno ampiamente le due ore di durata, e quattro serie “d’autore” (Alfonso Cuarón, Rodrigo Sorogoyen, Thomas Vinterberg e Joe Wright), che al di là delle macroscopiche differenze produttive e di contenuti, hanno in comune alcune non marginali caratteristiche. Prima di tutto, un approccio stilistico e formale di inconfutabile impronta cinematografica, al punto da indurre i loro autori a sostenere (e non si può non essere d’accordo) che si tratti in tutti i casi di film lunghi o lunghissimi, che nulla hanno da spartire con il linguaggio e le convenzioni delle serie televisive. L’altra significativa ricorrenza è che molte delle nuove serie d’autore aspirano a una distribuzione in sala, seppur limitata, prima di accedere alla piattaforma che è all’origine della loro genesi produttiva. La proposta integrale di queste quattro serie, di durate comprese fra le cinque ore e mezza di Cuarón e le otto ore di Sorogoyen, costituisce sicuramente una sfida per gli spettatori e una scommessa per il programma della Mostra, già ricco di per sé di molti titoli. Ci è sembrato tuttavia un rischio degno di essere assunto, volendo perseguire l’impegno del festival di segnalare, se non anticipare, le tendenze più significative che si manifestano all’interno dell’universo cinema.