Nel 1977, presso la galleria romana Campo D, Bianca Menna – nata Pucciarelli – sposa il suo alter ego Tomaso Binga in una cerimonia che segna la metamorfosi della donna in artista. L’ironica scelta di uno pseudonimo maschile riassume il gioco linguistico alla base della sua pratica. Nel corso della sua lunga carriera, Tomaso Binga ha lavorato come performer, poetessa, artista visiva, utilizzando parole e gesti per stravolgere i costrutti patriarcali. Ha mimato le lettere dell’alfabeto diventando un abecedario carnale, raccontando una donna indipendente (Scrittura vivente, 1976), e ha inciso ossessivamente tavole, taccuini, vestiti e carte da parati con lo scopo di liberarsi del significato e ribaltare le convenzioni linguistiche (Scrittura desemantizzata, 1972–1974). Il suo lavoro assume i risvolti della Poesia Concreta alla fine degli anni Settanta, quando viene invitata da Mirella Bentivoglio a partecipare alla mostra Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale Arte 1978. I quadrati dei suoi Dattilocodici sono costituiti dalla ristampa di un ideogramma che sovrappone due grafemi dattiloscritti a due colori a distanza regolare. Sommando una i a un 9 o un 7 a una j, l’artista annulla l’identità originaria dei singoli elementi alfanumerici. Gli ideogrammi estendono un invito verbo-visuale: se, come sostiene Binga, scrivere non significa descrivere, allora ognuno può proiettare in questi testi la propria soggettività.
Stefano Mudu