fbpx Biennale Teatro 2024 | Giorno 2: Sentire in bianco e nero
La Biennale di Venezia
    • IT
  • Menu

Your are here

Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Giorno 2: Sentire in bianco e nero

Posando tra i toni equilibrati del chiaroscuro, un corpo femminile affetto da emimelia tibiale si staglia in primo piano come immagine-manifesto del Festival Internazionale del Teatro in corso alla Biennale: è uno scatto che ritrae l’artista visiva Mari Katayama (White legs, 2012), colta nell’attimo in cui reclina lo sguardo verso le gambe protesiche imbottite di gommapiuma e ricoperte di un morbido vello. La fisicità costitutivamente fragile e imperfetta della giovane scultrice e fotografa giapponese trova sfogo nell’estetica cromatica della scala di grigi offerta dal filtro del bianco e nero. Eliminata la complessità del colore, l’attenzione si sposta sulla struttura del soggetto rappresentato: il tratto di un contorno, la dissolvenza di un’ombra, la gentilezza di un fascio di luce, ogni dettaglio si carica di una profondità e di un’autenticità palpabili.
La bicromia giocata sul contrasto si serve degli artifici retorici propri della sinestesia per innescare un processo di sottile giustapposizione: accostare elementi appartenenti a sfere sensoriali diverse per creare un effetto di mutamento semantico. La fruizione visiva dell’opera permette, a colpo d’occhio, di “toccare” con lo sguardo istantanee dai caratteri stratificati, cariche di materia, avvolte dalla suggestione di un profumo, immerse nel frastuono di un dettaglio.
Muovendo dall’immaginario poetico rappresentato dalla bellezza delicata di Katayama – che descrive la sua ricerca come «l’atto di misurare, smontare e ricongiungere» –, la programmazione del Festival apre un’indagine combinatoria attraverso l’espressione delle arti performative, esplorando le infinite gradazioni dentro, attorno e all’esterno dei confini del bianco e del nero.

Giulia Storchi

“Noi siamo un collettivo. Nessuno di noi è il capo. Potremmo dire che tutti siamo il capo”, sono queste le prime parole pronunciate da Sarah Thom, componente e fondatrice dell’ensemble anglo-tedesco Gob Squad, alla cerimonia di assegnazione del prestigioso Leone d’Argento 2024. Fin da subito, viene così portata all’attenzione dei presenti il fondamento del loro lavoro, che risiede nell’importanza della sua natura co-autoriale e condivisa.
Prima di invitare il gruppo a salire sul palcoscenico, i Direttori Artistici Stefano Ricci e Gianni Forte hanno esposto le ragioni che sostanziano la scelta di attribuire il premio ai Gob Squad, motivata dalla loro ricerca di “una bellezza abbagliante nelle viscere del quotidiano”, dal mantenimento di un’acuta visione della società e della capacità di servirsi in maniera flessibile degli spazi a disposizione.
Nella assolata ma ariosa domenica di giugno in cui si svolge la cerimonia, i Gob Squad vengono accolti dal boato esultante del pubblico. Sono parole di speranza quelle che vengono rivolte da Simon Will alla gremita Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian. Un messaggio forte, chiaro: “combattiamo la solitudine insieme – esorta Will –, sappiamo che avete bisogno di vedervi proiettati su di noi, perché siete soli. Anche noi siamo soli. Ecco perché siete disposti a pagare un biglietto, per sentirvi parte di qualcosa di più grande, per identificarvi in qualcosa di più grande”. 
A partire dalla sua formazione nel 1994, a Nottingham, l’ensemble si è sempre interessato delle tematiche relative alla comunicazione, alla connessione con l’altro, a come questa venga impedita e possa essere mediata al tempo stesso dalla presenza di barriere, fisiche e digitali. Guidati dalla fiducia in un cambiamento considerato sempre possibile, i membri del collettivo, con il loro operato artistico, puntano a creare occasioni in cui l’Io e il Tu possano diventare, nonostante le differenze e le difficoltà di integrazione, un Noi. È quello che cerca di fare Gob Squad a partire dalla sua stessa impostazione di base: “lavorare come un Noi è un gesto politico che rigetta il culto dell’individualità”, spiega Bastian Trost, nell’ottica di poter davvero costituire un’intesa profonda e autentica che porti a sviluppare un senso di appartenenza e condivisione. 
Segue, poi, in conclusione al loro discorso, il dialogo con il critico Andrea Porcheddu, che coinvolge quattro dei sette componenti in una conversazione, con domande che toccano gli argomenti più diversi e che pungolano a dare risposte altrettanto eterogenee, all’interno di una interazione che vede sollecitata la curiosità dello stesso pubblico. 
I quesiti sono di natura varia, dalla costruzione della partitura che emerge dal site-specific più che dal testo, al significato drammaturgico attribuito allo strumento-cornice della videocamera, alla sopravvivenza degli stilemi visuali e corporei del teatro “post-drammatico” teorizzato dallo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann, fino al rapporto triangolare con il pubblico e all’impatto dell’operato artistico sulla propria realtà e su quella delle persone coinvolte. 
In chiusura, viene riservata la domanda più scottante, in riferimento all’installazione di apertura della Biennale Teatro, Elephants in Rooms. Il titolo allude al modo di dire inglese con il quale si intende un problema, ingombrante nella sua presenza, di cui tutti sono consapevoli ma che nessuno si sente davvero di affrontare: “Qual è oggi l’elefante nella stanza che non vogliamo vedere?”
Bastian Trost ha la risposta pronta, fredda come può esserlo la doccia gelata di una realtà scomoda: “Il ritorno del fascismo”, dice con fermezza. Cala sulla Sala un silenzio consapevole, seguito poi da un altro giro di applausi. 
Seppur con questa nota amara sul finale, i toni rimangono venati di speranza, una tenera carezza rivolta allo spettatore, come a volerlo rassicurare che, in fondo, è proprio nella solitudine che troviamo il punto di partenza per realizzare una comunione con gli altri. 

Trapela una dichiarazione crudele in Creation (Pictures for Dorian): lasciar intendere che il teatro sia un'arte viva che non è dato sapere fin quando lo sarà. Perché il teatro è come una lingua: senza diffusione generazionale e parlanti giovani, essere tutelata attraverso leggi, regolamenti, bandi, non può salvarla dall'estinzione; è un linguaggio in pericolo, che ha rischiato e rischia tuttora di evolversi talmente per sopravvivere da diventare un'entità altra.
Lo spettacolo del collettivo anglo-tedesco Gob Squad è ideato e costruito proprio con l'obiettivo di predisporre una connessione tra le generazioni scritturando artisti di età differenti: in ciascuna città sono selezionati tre giovani attori e attrici e altrettanti attrici e attori “maturi”, che, attraverso due giorni di lavoro immersivo e strutturato, creano un'opera mai uguale a sé stessa. Questa operazione di lascito generazionale assume l'aspetto di una socializzazione alla parola, in cui il teatro diventa la lingua familiare che i nonni insegnano ai nipoti, consentendole di sopravvivere. Nella messinscena di Venezia tre attori del collettivo – Berit Stumpf, Johanna Freiburg e Bastian Trost – guidano i sei artisti locali e la replica vira incidentalmente verso la metanarrazione, verso uno studio lungo la direttrice nuovo-vecchio teatro.
La scelta di dar luce a decine di tableau vivant che si sovrappongono alle proiezioni video, ha quindi il compito di catturare la frammentata attenzione del pubblico che è diventata esile, impalpabile, sfuggente. Gob Squad crea i diversi ritratti divertendosi a trasporre in scena giochi di parole, cornici, fotogrammi, specchi, riquadri, piedistalli e citazioni di Oscar Wilde, a partire dal titolo. Le immagini sono costruite attraverso l'indagine psicologica e l'emanazione all'esterno del grottesco e dell'assurdo, agghindando gli interpreti con costumi di scena decisamente fantasiosi: parrucche, accessori, ghirlande e copricapi difficili da identificare come tali. Allo stesso tempo, i ritratti scoperchiano il piccolo, caldo, pulsante cosmo intimo, e mettono a nudo l'attore in momenti di delicata confessione. Ciò avviene all'interno di un contenitore decadente di natura morta, goffa ed esilarante, prende vita in un giardino all'inglese pittoresco che si atteggia a elegante composizione di ikebana – l'arte giapponese della disposizione dei fiori recisi. Qui sono intrecciati, insieme alle rose e alle fresie, l'artista e la persona, l'opera d'arte e il processo creativo, il pubblico osservante e partecipante.
Il lavoro culmina nella suggestione di una realtà non attuale ma possibile, in cui l'arte dal vivo e i suoi attori, indipendentemente dalla loro età, sono ridotti a reliquie nel retro di un impolverato museo: oggetti di cui sbarazzarsi così come i soprammobili opulenti ricevuti in eredità da nonni, zii, genitori. Ecco, quindi, cosa è stato portato in scena dal collettivo Gob Squad: il presagio di un teatro sgretolato dal tempo, abbandonato, dimenticato.
Lì, giace l'attore; con il racconto del suo passato, disposto a farsi scrutare attraverso specchi trasparenti, traslucidi come le armature di cui si è dotato per tutta la vita nella disperata ricerca di significato. Si tratta di un'operazione semantica che avvolge il pubblico, arricchisce lo sconosciuto mentre nutre il performer, all'interno di una economia del dono che si scontra con la logica del libero mercato: prendere il più possibile, lasciarsi afferrare, osservare, sfuggire, toccare l'animo e poi volatilizzarsi. È un'azione egoista e generosa insieme, che desidera unire, abbracciare – in un unicum passato, presente e futuro – creatore, opera e osservatore, teatro, attore e altrove.

Nella lettura bianco-nera delle pagine, vi sono alterità che procedono a sfasciare la meccanica duale della forma del libro. 
Il catalogo, una mappatura efficace della Biennale Teatro 2024 che più tardi sarà la reliquia dei suoi reami svaniti, si ritrova n. volte capovolto da disorientamenti ben oculati. 
Tra le sue pagine sono inseriti, infatti, fogli traslucidi che fungono da premio per ogni artista, incistando quel che viene dopo, la scrittura, con le loro figure fatue. Dal canto suo, il lettore della trama si ritrova spettatore di una pagina assottigliata sino all’osso che chiede di essere agita, tentata, mossa, oscillata, perché da essa – come a manipolare il negativo di un rullino in controluce – qualcosa appaia. 
Né lì né qui, dunque, semi-assenti o semi-presenti, ubiqui, questi demoni, abili a muoversi tra diversi mondi, emergono e prendono congedo dal nostro occhio come l’ombra della protagonista dello spettacolo di apertura al Festival, Crisalidi. Dopo un lampo, infatti, l’impronta della donna, lontana dal corpo a cui appartiene, rimane attaccata qualche istante alla parete prima di dissolversi. La fotografia House3# di Francesca Woodman, nel cui lavoro Ciro Gallorano indica l’origine della sua ispirazione, potrebbe essere presa come esempio efficace per comprendere meglio il meccanismo in questione. Del corpo polverizzato in un fuori fuoco, sotto la finestra di cui la fotografa gestisce sagacemente il controluce, rimane nitida soltanto una gamba che pare uscire direttamente dal muro. In queste crasi, nei refusi, si configurano allora delle creature leggendarie. Anche Miet Warlop, con After All Springville, mette in scena tali sfingi: i corpi umani vengono rotti, mozzati e riassemblati con le suppellettili di una casa; ed ecco che un tavolo con gambe umane cammina in scena. E potremmo pensare anche ai Muta Imago che si chiedono “Sono tempi, questi, in cui dover andare definitivamente in pezzi per scoprirci più vasti?” 
Ancora. La drammaturga Rosalinda Conti mette in lettura una regressione biologica, compiendo la stessa operazione: si legge nel catalogo che un albero di melo si sovrappone coi suoi frutti caduti, che una gatta scomparsa si disfa ritornando nel corpo felino di sua nonna, e analogamente una madre al corpo di un mollusco “perché così erano le cose appena nata la luce, sommerse”.

Tornando ora alle pagine su cui stavamo indagando, non è forse giusto chiedersi quale sia il reale ruolo di questi sembianti, quale sia la loro funzione nell’economia del programma? Proviamo a tracciare una possibile ipotesi. 
Georges Didi-Huberman nello straordinario saggio La conoscenza accidentale dà avvio alla sua ricerca descrivendo il paradosso del fasmide. Alla vita di quello che volgarmente è chiamato “insetto-stecco”, a ben vedere, sono intimamente connesse le nostre sovraimpressioni: questi animali misti, eterocliti, che non appartengono né all’uno né all’altro mondo, né al testo che a loro soggiace né al regno delle forme emerse, e chiedono, perciò, di essere attraversati.
Scrive così il filosofo: “soltanto ciò che all’inizio fu capace di dissimularsi può apparire”, e il fasmide, proprio scomparendo, assumendo le sembianze del fondale, impone al suo pubblico una certa lena per trovarlo tra le ramaglie della teca. 
L’insetto con cui Didi-Huberman descrive il phasma, segno divino, l’apparire di un mostro che si nutre, digerendo, ciò che imita, fa emergere un aspetto ulteriore delle nostre immagini sottili: perché si generino, infatti, abbisognano di un contatto. Sicché, tornando per un attimo all’opera di Francesca Woodman, ci accorgiamo che le sue figure, ora addossate alle pareti ora sprofondate in una siepe, in virtù cioè di una condizione di con-tatto, possono essere digerite da quello sfondo che nel racconto hubermaniano è al contrario il bolo masticato dall’insetto. 
In effetti, il collettivo Gob Squad – mago per la fine destrezza con cui gestisce la sovraimpressione in Creation (Pictures for Dorian), sfruttando le potenzialità della cinepresa – mostra con tutta evidenza questo punto d’oro in cui l’ante e il post-, il sotto e il sopra, la figura e lo sfondo sono contemporanei. Il letterale frammischiarsi nella proiezione video del volto del presente in quello del futuro, interpretati da due attori di età opposte, rivela che nulla nella crasi, neanche il tempo, si può cristallizzare: tutto nel bicefalo occhiuto, nella sfinge fugace e viva, eccede e si sfigura.
Per concludere, tornando al catalogo da cui tutto è partito, dal sottosuolo testuale, nel “fasmide” che introduce al lavoro di Luanda Casella – una donna a braccia aperte – irrompe frantumata una parola: «morte». Un’altra, «vita», e un’altra ancora, «crea», scompaginano, invece, le sagome di una famiglia goffamente intirizzita per aprire già lì prospettive, visioni oblique, vitali sull’opera di Markus Öhrn. Tali specie deformi, che il catalogo impiega come un valido tentativo di aderenza al mondo che contiene, sono allora domande, immagini aperte, affermazioni impossibili da formulare. 

È in queste gonfiature profonde che il libro cede, dileguando il suo il nitore per condurre fuori logica, tra gli opposti, una rivolta. Per sospendere il leggibile, il letterale, e sprofondare in luoghi più opachi da cui tutto, in parte, pare essere cominciato.   

Biennale Teatro
Biennale Teatro