Con We Humans – il suo progetto, il suo romanzo – Wayne McGregor ci ricorda che la danza è la sostanza umana tutta di respiro e cuore. C’è in essa, infatti, un afflato di millenni che acquista senso solo nell’hic et nunc della rappresentazione unica dell’esibirsi di vivi tra i vivi: il senso primigenio dello spettacolo che – legato com’è al tempo, allo spazio e all’azione della messa in scena – è caducità.
Un umano fortemente umano cui vengono in soccorso la registrazione e la documentazione, tracce che La Biennale di Venezia raccoglie e di cui fa tesoro grazie all’attento e indispensabile lavoro svolto dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC), deposito di memoria a servizio dei futuri studiosi.
In un tempo in cui l’attenzione globale è orientata al prodigio a-somatico dell’intelligenza artificiale, Wayne McGregor riconduce il discorso alla res extensa eleggendo il corpo umano come la tecnologia più sofisticata a nostra disposizione. Se infatti il test di Turing è stato superato già da tempo sul lato mente – la macchina ha cioè mostrato di simulare con successo un comportamento intelligente –, gli stessi traguardi sono ancora lontani per la cibernetica.
Le reti neurali non hanno un corpo, lavorano elaborando una serie di flussi di informazione astratti. Ma è il corpo, il contatto dei piedi con la terra, dell’interazione con i nostri simili, a costruire la nostra percezione e i confini del nostro Io, che sono inscindibili dalla carne. E dal battito cardiaco, che sin dagli albori della civiltà ha sancito il ritmo delle prime esibizioni, facendo da metronomo alle danze della pioggia e alle manifestazioni votive, in gloria al Divino.
I sistemi predittivi su base scientifica hanno già da un pezzo preso il posto degli oracoli, le stesse grandi religioni si sono assestate su liturgie che tra i sensi prediligono la voce, eppure, dopo migliaia di anni, si continua a danzare.
Si canta, dunque, ma alla danza non si rinuncia perché – e questa è la dottrina di Wayne McGregor – sopra ogni cosa la sostanza umana è movimento. Con il nostro corpo tracciamo linee di energia, arabeschi che spesso i fotografi di scena usano visualizzare con la posa B dei dispositivi ottici. E se il corpo tutto è intelligenza, la danza è da intendere come “atto filosofico di comunicazione”, condivisione di vibrazioni umane tra palco e platea, l’immedesimarsi – insomma – con il fluire stesso della vita.
La più primordiale tra le arti è la danza – la più pura tra le poesie della sostanza umana – e quindi è interazione, intrico di corpi, esperienza corale che mette in essere il rituale del Noi.
Le parole svelano sempre una incompiutezza ed è sul Noi che McGregor pone le premesse della sua poetica. Ben oltre la rappresentazione scenica, adoperando altri alfabeti, altre grammatiche – costrutti di armonia mentale e danza – McGregor entra di diritto nella vita vissuta trasfigurando l’altrimenti spenta presenza di tutti noi in emozioni e sentimenti.
Il suo canone – nel suo essere mutevole in incessante alterità – è il riappropriarsi di una linea celata sulla terra, il luogo della sostanza umana, il labirinto eterno dove ci si sfugge e ci si ricerca, e dove si torna nei propri passi.
Nel compiersi della forma – ecco We Humans, ecco il romanzo di Wayne McGregor – si palesa la danza pura, la pura poesia.