Le stilizzate figure di Joan Mirò, riemerse dalle fantasie d’infanzia, vengono ricordate per le tonalità sgargianti dei colori primari ma anche per quelle marcate linee nere di contorno mutuate dallo stile grafico giapponese, confini che impediscono una transizione graduale dello sguardo da una forma all’altra. Eppure, parlando proprio del nero, il pittore afferma che “non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature. Il nero è il paradiso della pittura. Il principio e la fine”. E così, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, ecco apparire sulle grandi tele bianche dello studio maiorchino di Mirò, circondato dai colori del mediterraneo, pochi, decisi tratti scuri su enormi tele bianche, paesaggi e personaggi sciolti nell'astrattezza di un'idea o di un ricordo e pronti a divenire ideogrammi. Perché se mettere nero su bianco significa tornare allo schema o al concetto, rendere chiaro e leggibile, la sottrazione del colore permette di guardare con un’attenzione diversa ai pochi elementi che restano. Il bianco della tela rivela così più facilmente i suoi pori, le sue imperfezioni, le macchie grigie o avorio. Il colore nero, invece, si scopre materico, mostra i suoi riflessi marroni, bluastri, viola, raccoglie le impronte delle dita oppure lascia che il suo pigmento si diradi in un grigio indeciso. Il tema del Niger et Albus alla Biennale Teatro 2024 è anche questo: semplificare, esasperare contrasti per spingere l’occhio di chi guarda a cercare le sfumature, a ricostruire un’opera d’arte segreta.
Cecilia Cerasaro
Tra le iniziative promosse da Stefano Ricci e Gianni Forte nel corso della loro direzione quadriennale alla Biennale Teatro, la più fruttuosa è forse quella dello sviluppo dei bandi Biennale College. Suddivisi in drammaturgia, regia e site-specific, questi permettono a molti giovani di essere seguiti durante lo sviluppo dei loro progetti. Il workshop di drammaturgia, curato da Davide Carnevali, prevede l’ingresso di dieci tra autori e autrici, che per dieci giorni lavorano su degli elaborati progettati precedentemente o scritti direttamente in sede di laboratorio. Ai vincitori vengono in seguito affiancati dei registi, assieme a cui svolgono uno studio ulteriore sul testo della durata di cinque o sei mesi. Il risultato è la presentazione, alla Biennale Teatro successiva, di una prima mise en lecture. Si arriva infine, alla prima assoluta dello spettacolo. Quest’anno abbiamo potuto vedere in scena Cenere di Stefano Fortin con la regia di Giorgina Pi, il primo dell’anno ad approdare alla fine di questo percorso; seguirà in questi giorni il lavoro di Carolina Balucani con la regia di Fabrizio Arcuri. Sono state presentate anche le mise en lecture di Così erano le cose appena nata la luce di Rosalinda Conti con regia di Martina Badiluzzi e di Livido di Eliana Rotella, con regia di Fabio Condemi. A seguito delle letture, ci sono stati due incontri tra autrici e registi – alla presenza anche di Davide Carnevali – con il critico Andrea Porcheddu. Durante il dialogo, è stata sottolineata l’importanza dell’esistenza di questi bandi, che si pongono nel solco di una mancanza formativa in Italia, mancanza che colpisce in modo particolare la scrittura. Perché se è vero che esistono le accademie, esse si rivolgono principalmente ad attori e registi. Come ha ricordato anche Rotella, è raro trovare spazi che diano la possibilità di confrontarsi tra drammaturghi, e che seguano gli autori sul lungo periodo, accompagnando la creazione di un'opera fino al suo debutto. In un mondo – quello del teatro – che sempre più pare farsi scarno di fondi e opportunità, l’esperienza Biennale College è stata un piccolo barlume di luce e speranza: la possibilità, nel corso di un triennio, di vedere crescere la giovane drammaturgia italiana. E che dire di questi esiti? La parola in Livido si fa fuoco e incendio nella sua frammentarietà, nell’uso di una reiterazione che non è mai stancante ma anzi violenta e dolorosa, non solo scelta nel tema trattato – uno stupro commesso da un medico – ma anche nel campionario di parole usate, nel loro suono, nella disciplina con cui l’autrice si confronta coi silenzi, coi vuoti. Rosalinda Conti porta invece una drammaturgia squisitamente post-umana: quattro figure in scena vedono il mondo involvere dalla loro casa, vedono l’acqua e la terra divorare il loro salotto, la cucina, vedono risorgere il gatto morto vent’anni prima, e infine si eclissano con gioia. Conti, Rotella e Fortin sembrano lavorare scartando per un attimo i personaggi, che in due casi hanno sì dei nomi, ma potrebbero anche non averli. Al loro posto, torna in scena la figura dell’autore: in Livido e Cenere tiene in pugno il racconto, lo muove. Nel primo come un regista che ripete morbosamente le scene, nel secondo nella forma di monologhi che fanno da collante per i tre quadri che compongono lo spettacolo. In un Paese che vanta la centralità della regia, si sente forse la necessità di rimettere la scrittura al centro; in un processo che, nel caso di questi autori, non è esente dal rischio di un certo autocompiacimento. Tuttavia, queste scritture hanno il merito di saper padroneggiare la lingua del contemporaneo, che non è quella della quotidianità, ma anzi è in grado di trasfigurarla, di riportarla attraverso un filtro creativo. E, allora, se la scrittura teatrale ha il ruolo, anche politico, di parlare dei nostri tempi, è giusto notare come le tre narrazioni presentate siano tetre, sconsolate e inconsolabili. Tre autori che cantano la fine del mondo, non la fine delle narrazioni ma la distesa infinita che ci troviamo davanti; e sia essa la cenere di Fortin, l’acqua di Conti o i corridoi degli ingiusti ospedali di Rotella poco importa. Il messaggio pare chiaro: ci dobbiamo confrontare con quello che rimane.
Per Paul Valéry all’origine della scrittura c’è la mente, “il teatro della mente”, per usare un’immagine cara alla filosofia medievale. Secondo il poeta francese, infatti, “prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale”. La perlustrazione dello spazio in cui emerge il pensiero da parte di Valéry, la sua circumnavigazione dell’intelletto, dura cinquantuno anni. Mezzo secolo in cui, ogni mattina, tra le quattro e le otto, la sua penna si muove frenetica sulla carta, nel tentativo di catturare il punto primigenio da cui sgorgano le parole. Entrando, qualche giorno fa, nel Teatrino di Palazzo Grassi, ho visto dieci giovani impegnati in qualcosa di simile. Anche loro stavano cercando di rintracciare i mondi dietro le parole, l’intenzione che fa da innesco a una battuta, la catena dei passaggi mentali che conduce a un dire e non a un altro. Questi giovani avevano però introdotto anche molte differenze rispetto all’archetipo che avevo in mente, a partire dall’impostazione della loro ricerca come un atto di scambio e condivisione. Non c’era un uomo impegnato in un’attività solitaria, ma un gruppo di donne e di uomini uniti nella ricerca della mappa di quel luogo. Leggono ad alta voce qualche battuta, chiedono all’altro cosa ne pensa, scarabocchiano sui testi, depennano due, tre, sei didascalie, rileggono il passaggio, cade un foglio, chiedono all’altra di riprendere dall’ultima battuta, raccolgono il foglio, “e se questa la facessimo così?”, “e perché non così?”, si tolgono le scarpe, cantano, si guardano negli occhi. Gira una frase di un drammaturgo, di cui non ricordo né volto né nome, che dice: “avrei voluto fare lo scrittore, ma non sono in grado di scrivere da solo”. Mi dico che potrebbero averla detta loro – i giovani che osservo muoversi sul palcoscenico. Ed è proprio qui che si palesa la seconda novità, l’ulteriore elemento di scarto rispetto alla vicenda dello scrittore francese. Su quel palcoscenico ci sono dei corpi e la loro presenza è imprescindibile. Ogni loro battuta o dialogo viene costruito su una partitura fisica, è il loro corpo che decide se una certa parola possa nascere in bocca a una persona oppure no. Sono i finalisti del bando Drammaturgia Under 40 della Biennale College Teatro 2024 e vengono da ogni luogo d’Italia. Hanno superato una fase iniziale di selezione che li ha portati a Venezia, per seguire un laboratorio condotto da Davide Carnevali. L’autore e regista italiano li ha seguiti nella scrittura e nella mise en lecture di un testo che, al termine del laboratorio, verrà letto davanti ai Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte. Saranno loro a scegliere le due opere che, grazie al lavoro di registi e attori che si svilupperà sull’arco di un anno, verranno presentate in forma di lettura nella prossima edizione della Biennale Teatro. Incontro Carnevali al mio arrivo al Teatrino di Palazzo Grassi, mi dice che i partecipanti al laboratorio sono stati divisi in due gruppi, uno è sul palco a fare le prove, nell’altro si discutono i testi dei partecipanti in forma collegiale. Per Carnevali è essenziale mettere le autrici e gli autori nella condizione di poter trovare la necessità del loro dire e fare, guidandoli nel salto in uno stato e in un linguaggio diversi da quelli della realtà, del vivere quotidiano. Prendo posto tra le poltrone del teatro ed è a quel punto che assisto alla scena che mi ricorda l’accanita esplorazione della mente a opera di Valery. Osservare le prove di una rappresentazione teatrale, che sia spettacolo o mise en lecture, significa fiondarsi in uno spazio misterioso dove accade di tutto: ripensamenti, sfrondamenti, scoperte, incontri e trasformazioni. È lo spazio del dubbio e della possibilità, di quello che è, ma che forse non sarà, è “la zona di chi cerca e racconta”, come diceva Daniele Del Giudice, ma appunto, insieme, in collettività.
Secondo gli studi condotti da Carl Gustav Jung, l’essenza emblematica del cerchio è la pienezza. Simbolo di ciclicità, il cerchio è una forma geometrica che rappresenta un punctum e un continuum: un’area magnetica in cui si concentrano energie, legate all'universo e alle sue dinamiche in continua evoluzione, senza inizio né fine. Si ripete il ciclo della vita nella sfera magica, al cui interno chi si trova a farne parte si sente al sicuro. Un luogo per la condivisione, dunque, dove assi e convergenze si incontrano creando scintille. Dieci sedie rosse, unite in un’amichevole circonferenza, sono posizionate nella biblioteca dell’Archivio Storico della Biennale Arte di Venezia. E le occupano dieci ragazzi e ragazze, arrivati da lontano con una piccola valigia vuota, desiderosa di essere riempita di esperienze; apparentemente parlano lingue differenti, ma tra loro un unico idioma, quello dell’arte. Sono attori, scenografi, costumisti, registi, uniti al fine di focalizzare l’attenzione sulle dinamiche che accadono in platea, piuttosto che considerare solo i personaggi in scena: “Spesso le ignoriamo, le trattiamo male, agli spettatori spesso offriamo versioni cult in confezioni scintillanti e sigillate”, afferma l’autore-regista. Insieme per cinque giorni, i laboratoristi hanno percorso sentieri sperimentali, guidati dalla figura dialogica – così la definiscono i partecipanti stessi – di Crouch: la parola d’ordine del suo mondo è proprio Dialogo. Partendo dal lavoro dell’artista, i ragazzi e le ragazze scoprono i meccanismi della produzione scenica: il rapporto tra forme, storie, personaggi, in un percorso rivolto a chiunque aspiri a un processo di creazione teatrale. Sembra una provocazione del teatro “smaterializzato”: Crouch, come un perfetto chirurgo, svolge un’operazione di indagine della performance, dirotta il focus verso il pubblico, trasformandolo in co-autore. Quel che gli interessa è il consenso tra parti, in cui l’ironia sfuma i rapporti performativi, rompendo i canoni classici che limitano la quarta parete. Emblema di questo gioco è The Author (2009), in cui Crouch racconta la storia di un’opera violenta, ambientata al Royal Court Jerwood Theatre Upstairs e messa in scena da un presunto autore “omonimo” del regista, con gli attori seduti nel pubblico, responsabilizzando ogni spettatore, esplorando connessioni e relazioni possibili. Ed è proprio da qui che prende le mosse l’artista durante i suoi giorni a Venezia: esplorare dinamiche al di là del ruolo, del palco, della scrittura scenica. All’interno del suo cerchio, i partecipanti al laboratorio scavano, alla ricerca di idee progettuali, attraverso premesse suggerite dall’autore. “Story”, “form”, “location”: sono questi i punti di partenza per il gruppo. Il risultato è sorprendente: in soli 15 minuti, ognuno di loro ha la capacità di ricreare scenari che funzionano, suscitando forti emozioni tra i compagni. Godendo di una fama internazionale, Crouch non ha bisogno di ulteriori presentazioni: laureato all’Università di Bristol, fondatore della compagnia teatrale Public Parts, fin dagli anni Ottanta, con la sua arte, costituisce uno dei corpus più rilevanti della drammaturgia inglese contemporanea. Innovatore del dramma concettuale, negli anni ha sapientemente disturbato lo spettatore passivo. Con Truth’s a Dog Must to Kennel, presentato alla Biennale, continua l’esplorazione nel mondo di Crouch. Al termine della performance, applausi e sorrisi lo accolgono calorosamente: è l’affetto dei ‘suoi’ ragazzi, grati per il tempo trascorso insieme, pronti ad andare avanti alla scoperta di altri saperi da mettere in valigia; pronti per imparare ancora e ancora, perché il cerchio non smetterà mai di essere infinito.